Tra statalismo e regionalismo. La sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2024

PREMESSA CONCETTUALE

La sentenza n. 194/2024 della Corte Costituzionale, depositata il 3.12.2024, ha affrontato e risolto un tema decisivo per le sorti presenti e future del nostro Paese. Essa ha fornito una chiave di lettura finalmente sistematica ed alta dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, norma sovente utilizzata, sia in ottica politica, sia in ottica normativa, sia in ottica sociologica, per dare corpo alle spinte isolazioniste che vengono da molti territori.

Con detta sentenza, la Corte Costituzionale ha inteso fare chiarezza, spiegando esattamente, sul piano dello spirito e degli equilibri costituzionali, cosa implichi essere una Repubblica unitaria, equa e solidale ed entro quali limiti sia possibile concertare le differenze tra i territori.

In questo lavoro si lascerà poco spazio alle considerazioni personali e molto, invece, si trarrà dalla sentenza, le cui parole e le cui voci risuonano più chiare ed alte di qualunque commento.

ORIGINI DELLA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITA’

Con legge 26.06.2024 n. 86 il Parlamento ha licenziato Le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. In particolare, ha inteso fornire un quadro d’azione rispetto alle indicazioni contenute nella norma costituzionale, fornendone una lettura orientata, sistematica ed omogenea.

La Corte è partita dall’esame delle plurime questioni di costituzionalità proposte dalle regioni Campania, Sardegna, Toscana, Puglia, resistite così dalla difesa della Presidenza del Consiglio, come dagli interventi ad opponendum delle regioni primariamente coinvolte nel processo di differenziazione, la Lombardia, il Piemonte, il Veneto.

Si tratta di un resoconto di elevata caratura storico-sistematica e, in ultima analisi, giuridico-costituzionale, che tornerà utile per guidare le rotte di governi e parlamenti che vorranno, nel futuro, intraprendere la strada delle riforme e, nel dettaglio, riconfigurare gli attuali rapporti di forza, in termini di competenza e di risorse, tra Stato e Regioni.

IL TEMA DELLA C.D. AUTONOMIA DIFFERENZIATA

E’ utile premettere che l’art. 116 comma 3 della Costituzione, come novellata con legge costituzionale n. 3 del 2001, ha stabilito che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Una norma complessa e dai risvolti non sempre chiarissimi che, ad una prima lettura, avulsa dal contesto, potrebbe essere intesa come fattore di divisione del Paese e di asserzione del primato delle differenze su quello delle unità.

E, in effetti, così è stata intesa nella percezione politica e popolare che, da anni, persegue l’obiettivo di spingere in direzione di un regionalismo più marcato e distanziato, facendo leva proprio sull’art. 116 comma 3 della Costituzione.

La Corte proprio su questo versante si è pronunciata e, andando a scrutinare le singole disposizioni che hanno composto la l. n. 86/2014, ha inteso riasserire, attraverso una lettura globale della Costituzione, il principio di unità ed indivisibilità della Nazione, al quale piegare ogni altro principio, compresi quelli che vanno nella direzione di inseguire le particolarità e le inevitabili differenze tra i territori. Annota invero la sentenza che Le pur rilevanti modifiche introdotte nel 2001 con la riforma costituzionale del Titolo V non permettono di individuare «una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali» (sentenza n. 365 del 2007). Non solo, ma in preparazione di un regionalismo avanzato ed illuminato, precisa che La ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in una unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi in cui trovi voce e dalle quali possa ottenere delle politiche pubbliche, anche differenziate, in risposta alle domande emergenti. Perciò il regionalismo corrisponde ad un’esigenza insopprimibile della nostra società, come si è gradualmente strutturata anche grazie alla Costituzione.

Ciò, tuttavia, con un limite invalicabile: Spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale. Ecco perchè, annota la Corte, la vigente disciplina costituzionale riserva al Parlamento la competenza legislativa esclusiva in alcune materie affinché siano curate le esigenze unitarie (art. 117, secondo comma, Cost.), e gli affida altresì dei compiti unificanti nei confronti del pluralismo regionale, che si esplicano principalmente attraverso la determinazione dei principi fondamentali nelle materie affidate alla competenza concorrente dello Stato e delle regioni (art. 117, terzo comma, Cost.), attraverso la competenza statale nelle cosiddette “materie trasversali” e mediante la perequazione finanziaria a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, terzo comma, Cost.).

In definitiva, la Corte richiama e riconosce come conformi e legittime le differenze, anche di ordine competitivo tra le Regioni, ma esclude che esse possano spingersi sino a generare una sorta di avulsione di ciascuna di esse dalla dimensione nazionale e, soprattutto, dalla dimensione solidale. In questo senso, il Supremo Giudice delle leggi precisa che l’ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche, non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato –, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia.

IL REGIONALISMO COOPERATIVO DISEGNATO DALLA CARTA COSTITUZIONALE – IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

Poste le precorse premesse, la Corte ha ammonito il legislatore, segnalando nomofilatticamente che il perseguimento di forme e modi differenti di conseguire i propri scopi deve avere matrice e finalità alte, mai foriere di compromettere il tema della coesione e della solidarietà sociale, che è punto irriducibile della nostra esperienza costituzionale. Sintesi di tale pensiero è l’inciso della sentenza in commento, secondo cui Coerentemente con la suddetta esigenza, il regionalismo italiano, nel cui ambito deve inserirsi la differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., non è un “regionalismo duale” in cui tra una regione e l’altra esistono delle paratie stagne a dividerle. Piuttosto, è un regionalismo cooperativo (sentenza n. 121 del 2010, punto 18.2. del Considerato in diritto), che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni (ex multis, sentenze n. 87 del 2024 e n. 40 del 2022) e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano. A tale logica costituzionale va ricondotta la differenziazione contemplata dall’art. 116, terzo comma, Cost., che può essere non già un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali.

Tuttavia, posto il principio, il tema è: come tenere insieme il principio di unità ed indivisibilità della Nazione con l’esigenza della valorizzazione delle specificità territoriali, perseguito dall’art. 116 comma 3 della Costituzione, senza con questo incidere sul tema della coesione sociale e dell’equità solidale?

La Corte ha, sul punto, fornito chiavi di lettura precise, fondandole su un criterio che permea così gli ordinamenti comunitari come quello italiano, quello della sussidiarietà. Annota, difatti, che, Per quanto riguarda la ripartizione dei compiti, il collegamento tra l’unità e indivisibilità della Repubblica, da una parte, e l’autonomia delle regioni accresciuta grazie alla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., dall’altra, è assicurato dal principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà è, del resto, un principio fondamentale dello spazio costituzionale europeo. Esso orienta la ripartizione delle competenze legislative tra l’Unione e gli Stati membri (art. 5 TUE, nonché il Protocollo n. 2 annesso al Trattato) ed è altresì riconosciuto dal diritto costituzionale di alcuni Stati membri (art. 72 della Costituzione francese e art. 6 della Costituzione portoghese). Nell’ordinamento italiano, il principio di sussidiarietà verticale ha un riconoscimento testuale negli artt. 118, primo comma, e 120, secondo comma, Cost. (con riferimento, rispettivamente, alle funzioni amministrative ed al potere sostitutivo), ed è stato oggetto di elaborazione da parte della giurisprudenza costituzionale, che l’ha esteso alla funzione legislativa tramite l’istituto della “chiamata in sussidiarietà” (sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004). Anche la legge impugnata, peraltro, richiama il principio di sussidiarietà negli artt. 1, comma 1, e 6, comma 1.

Dunque, è la sussidiarietà la chiave per intendere il senso di una legislazione conforme allo spirito costituzionale e, dunque, adeguata a perseguire finalità di autentico e solidale interesse pubblico. Tema di non facile approccio, giacchè il confine tra sussidiarietà legittima e sussidiarietà abusata è sottile. Anche in questo caso la Corte non si sottrae al suo ruolo e fornisce il suo oriente. Asserisce, così, che la sussidiarietà non può essere intesa come comoda copertura per riforme che non abbiano, al loro vertice, una ispirazione solidale, ma debba procedere per livelli di congruità ed adeguatezza, secondo un criterio, dunque, di specificità e non di assiomatica universalità. Detto altrimenti, allorchè si evochi il principio di sussidiarietà, non basta il livello meramente nomenclativo, ma occorre specificare materie, fonti, limiti, in funzione della imprescindibile coesione rispetto al principio di unità solidale della Nazione.

Dunque, l’art. 116 comma 3, non può essere né inteso né utilizzato come grimaldello per favorire distacchi isolazionisti, ma come strumento per rinforzare, attraverso la specificazione dei livelli di efficienza territoriale, l’unità dell’intera Nazione e l’innalzamento dei suoi servizi ovunque. Sibilline sono, sul punto, le parole della Corte, secondo cui Tale principio esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. Ai fini dell’attribuzione della funzione, contano le sue caratteristiche e il contesto in cui la stessa si svolge. La sussidiarietà funziona, per così dire, come un ascensore, perché può portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto. Da ciò consegue che, Poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie. La funzione è un insieme circoscritto di compiti omogenei affidati dalla norma giuridica ad un potere pubblico e definiti in relazione all’oggetto e/o alla finalità. A ciascuna materia afferisce, invece, una gran quantità di funzioni eterogenee, per alcune delle quali l’attuazione del principio di sussidiarietà potrà portare all’allocazione verso il livello più alto, mentre per altre sarà giustificabile lo spostamento ad un livello più vicino ai cittadini.

Ecco, dunque, spiegato il meccanismo valoriale e concettuale che è alla base dell’art. 116 comma 3 della Costituzione e che si annida, ancorchè per formule non propriamente chiare, nella tessitura delle sue parole. La sussidiarietà non è una parola, né semplicemente, un tema. La sussidiarietà è una sostanza, un valore, la cui misura sarà il principio di effettività ed efficienza, ovvero la relazione non formale tra devoluzione ed obiettivi.

LE RAGIONI DI INCOSTITUZIONALITA’ DELLA L. 86/2024.

E’ stato proprio questo ragionamento e, a cascata, quello legato all’efficacia, all’efficienza ed alle ricadute in termini unitari dell’intervento devolutorio, ad aver guidato lo scrutinio della Corte e determinato la parziale dichiarazione di incostituzionalità della l. 86/2024.

La Corte ha colto nell’articolato un vizio “spirituale” di fondo, aver ritenuto potersi devolvere sommativamente ed a cascata intere materie (nel caso specifico, tutte), senza alcuna considerazione delle eterogeneità e senza alcuna verifica circa l’utilità di farne conservazione, in ragione del principio di sussidiarietà verticale, in capo allo Stato. Un approccio, dunque, assiomatico ed indifferenziato, incapace di distinguere e valutare, in urto con i principi di unità, adeguatezza, proporzionalità e coesione costituzionalmente prescritti.

Da qui la conclusione sibillina e, si direbbe, pedagogica della Corte: l’art. 116, terzo comma, Cost. va interpretato coerentemente con il significato del principio di sussidiarietà, e pertanto la devoluzione non può riferirsi a materie o ad ambiti di materie, ma a specifiche funzioni. Il tenore letterale della disposizione conferma tale conclusione. Essa, infatti, fa riferimento alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia «concernenti le materie», lasciando intendere che il trasferimento non riguarda le materie ma le singole funzioni concernenti le materie. Poiché tale disposizione prevede l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia, senza distinguere la natura legislativa o amministrativa della devoluzione, quest’ultima potrà riguardare solamente funzioni amministrative o legislative, oppure tanto le funzioni legislative che quelle amministrative concernenti il medesimo oggetto. In definitiva, secondo la prospettiva costituzionale, incentrata sul principio di sussidiarietà, la scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e amministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione, nel caso della differenziazione art. 116, terzo comma, Cost., non può essere ricondotta ad una ex logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi.

Un ammonimento forte, che antepone le ragioni del popolo a quelle del principe, ribadendone la sovranità, secondo il costrutto di cui all’art. 1 della Carta.

I CANONI DELLA SUSSIDIARIETA’: EFFICACIA, EFFICIENZA, EQUITA’, RESPONSABILITA’

La Corte Costituzionale, ben consapevole della scivolosità del tema, una volta asserito il principio, non ha inteso lasciare soli gli interpreti, Parlamento e Governo in testa. Ha, piuttosto, apprestato gli strumenti per la verifica ex ante, stabilendo che In questa prospettiva, l’adeguatezza dell’attribuzione della funzione ad un determinato livello territoriale di governo va valutata con riguardo a tre criteri: l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro distribuzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Tali criteri trovano fondamento nella Costituzione. Dunque, l’attuazione dell’art. 116/3 della Costituzione non può essere affidata alle torbide acque dell’opinazione, ma richiede invece studio, istruttoria, specificazione per modelli di efficienza. Così, la Corte ha inteso precisare che esiste un trade-off tra autonomia regionale e eguaglianza nel godimento dei diritti, rispetto al quale deve essere trovato un ragionevole punto di equilibrio, attraverso un’adeguata allocazione delle funzioni e idonei meccanismi correttivi delle disparità, evitando conseguenze negative in termini di diseguaglianze. La necessità di ricercare tale punto di equilibrio è alla base di diverse disposizioni costituzionali che: tutelano i «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e parimenti prevedono i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.); attribuiscono alla Repubblica nel suo complesso il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo comma, Cost.); prevedono il potere statale di regolare la perequazione delle risorse finanziarie, di determinare i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e di compiere interventi perequativi, anche per rimediare agli svantaggi dell’insularità (artt. 117, secondo comma, lettere e e m, e 119, terzo, quinto e sesto comma, Cost.); garantiscono la «tutela dell’unità giuridica» e «dell’unità economica» della Repubblica (art. 120, secondo comma, Cost.). Alla luce di tali previsioni costituzionali, ogni processo di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., dovrà tendere a realizzare un punto di equilibrio tra eguaglianza e differenze.

Qui sta la pietra miliare della vicenda. L’obiettivo della differenziazione richiede la luce della conoscenza, la disposizione all’ascolto delle voci che vengono dall’intera Nazione, la piena responsabilità di chi pensa e governa il processo. Chiarisce la Corte: Poiché si tratta di una deroga alla ordinaria ripartizione delle funzioni, essa va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta.

E’ del tutto evidente che, in questa ottica, non può trovare posto, a giustificazione della domanda di estensione, una astratta o, peggio, urlata, esigenza di autonomia, magari intrisa anche di vetero-localismo e di distanziamento etnografico o storiografico. Serve, al contrario, un preciso scrutinio circa il suo fondamento, l’utilità nazionale di inverarla, la sua necessaria specificazione. Ammonisce pertanto la Corte che L’iniziativa della regione e l’intesa previste dalla suddetta disposizione costituzionale devono, pertanto, essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico (come, peraltro, suggerito dalla Banca d’Italia nella memoria depositata il 27 marzo 2024 nel corso dell’audizione davanti alla I Commissione, Affari costituzionali, della Camera dei deputati). In ogni caso, anche qualora alcune funzioni concernenti una determinata materia vengano spostate alla competenza legislativa piena della regione, resteranno fermi i limiti generali di cui all’art. 117, primo comma, Cost. e le competenze legislative trasversali dello Stato come la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile e i LEP, così come resta operativo il potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost. Spetta alla discrezionalità del legislatore trovare le soluzioni che attuino la devoluzione ritenuta più adeguata, ma nella ricerca – invero non semplice – di tali soluzioni non potrà spingersi oltre le “colonne d’Ercole” rappresentate dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di Stato.

In questa ottica, e stante la logica profondamente riflettuta di ogni ipotesi di estensione delle prerogative regionali ex art. 116/3 Cost, la Corte Costituzionale ha comunque ricordato al legislatore, quale fattore di ‘moral suasion’, che Resta, comunque, riservato a questa Corte il sindacato sulla legittimità costituzionale delle singole leggi attributive di maggiore autonomia a determinate regioni, alla stregua dei principi sin qui enunciati.

I LIMITI CONCETTUALI ED APPLICATIVI DELL’ART. 116 COMMA 3 DELLA COSTITUZIONE

A presidiare ulteriormente il suo argomentare, la Corte Costituzionale ha inteso ricordare come alcune materie, astrattamente devolvibili ex art. 116 comma 3, solo difficilmente potrebbero esserlo, stante la concatenazione di interventi ed interessi che ruota loro attorno. Il che, ricorda la Corte, avrebbe dovuto implicare una ancora più stringente istruttoria e motivazione, allo scopo di superare gli ostacoli, di ordine concettuale, allo loro integrale devoluzione. Tra queste, la Corte ricorda la materia del “Commercio con l’estero”, o della “tutela dell’ambiente”, o della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, o dei “porti e aeroporti civili”, delle “grandi reti di trasporto e di navigazione”, o delle “professioni”, o delle “norme generali sull’istruzione”, su cui si gioca il principio di unità culturale della Nazione, o de “l’ordinamento delle comunicazioni”, quest’ultima rilevante in relazione a profonde e non riducibili questioni di sicurezza nazionale e gestione di dati personali. Tutti ambiti su cui pesano, tra l’altro, indicazioni normative ed impegni governativi di rango internazionale e comunitario, difficilmente scorporabili dalla prerogativa unitaria dello Stato centrale.

Ebbene, la l. 86/2024 ha, proprio sui detti punti, fallito la sua missione, esponendo il sistema-paese ad un severo rischio di tenuta e di credibilità internazionale.

LA LEGGE 86/2024 ED I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI (LEP)

Poste le questioni, la Corte ha inteso dichiarare l’incostituzionalità dell’art. art. 3, comma 1 della l. 86/2024, nella parte in cui, saltando le prerogative del Parlamento, ha inteso conferire una delega legislativa per la determinazione dei LEP (Livelli essenziali delle Prestazioni), espressamente previsti dall’art. 117 della Costituzione. Censura la Corte che L’art. 3, comma 7, prevede che questi futuri decreti legislativi possano essere successivamente modificati con un atto sub-legislativo, cioè con un d.P.C.m. Tale meccanismo risulta intrinsecamente contraddittorio e dissonante rispetto al sistema costituzionale delle fonti. Esso si distingue da quello della delegificazione (come notato nel parere del Comitato per la legislazione, che ha chiesto alla Commissione di merito della Camera di valutare l’opportunità di una riformulazione della disposizione) per un profilo essenziale: mentre l’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), prevede che la legge di delegificazione disponga l’abrogazione di norme legislative previgenti, a decorrere dall’entrata in vigore del regolamento di delegificazione, la norma in esame prevede la modifica di un atto legislativo futuro ad opera di un atto sostanzialmente regolamentare (il d.P.C.m.). L’art. 3, comma 7, non può disporre della forza dei decreti legislativi di determinazione dei LEP, perché essi ancora non esistono. Dunque, la norma impugnata configura il d.P.C.m. come una fonte primaria, essendo esso abilitato a modificare un decreto legislativo per forza propria. L’art. 3, comma 7, prevedendo contraddittoriamente che un futuro atto avente forza di legge possa essere modificato con un atto sub-legislativo, viola l’art. 3 Cost. Tale vizio si riflette in lesione delle competenze costituzionali delle ricorrenti, perché (analogamente a quanto rilevato per l’art. 3, comma 1) l’art. 3, comma 7, delinea un quadro illegittimo dell’azione regionale, dato che i LEP intersecano numerose materie regionali.

Non solo, ma la Corte, a cascata, interviene anche sull’attuale assetto dei LEP, annotando che La scelta “a regime”, compiuta dall’art. 3, comma 1, è nel senso della determinazione dei LEP con decreto legislativo, ma lo stesso art. 3 dispone che continua ad applicarsi la procedura introdotta nel 2022, che prevede la loro determinazione con d.P.C.m. ed è soggetta, fra l’altro, a un termine finale più ravvicinato (art. 1, comma 795, della legge n. 197 del 2022) rispetto a quello fissato alla delega legislativa (luglio 2026). L’accoglimento della questione relativa all’art. 3, comma 9, determina l’illegittimità costituzionale in via consequenziale, sopravvenuta a partire dall’entrata in vigore della legge n. 86 del 2024, delle norme la cui applicazione è tenuta ferma, cioè dei commi da 791 a 801- dell’art. 1 della legge bis n. 197 del 2022. Resta fermo il lavoro istruttorio e ricognitivo compiuto sulla base di tali norme.

Dunque, muovendo dalla l. 86/2024, la Corte Costituzionale è intervenuta decisamente sull’assetto attuale dei LEP e ne ha chiarito il senso ampiamente contrastante con i principi di coesione costituzionale, essendo fondato sulla c.d. spesa storica e, dunque, su un criterio a cagione del quale si sono generate le disarmonie correnti. Vi è oggi, grazie alla sentenza n. 192/2024 della Corte Costituzionale, speranza che le risorse concernenti gli ambiti vitali del vivere (istruzione, sanità, trasporti, previdenza ed assistenza, etc..) possano finalmente venire distribuite sulla base dei principi di efficienza, coesione e solidarietà sociale. Si ricorda che la stessa Corte chiarisce che La scelta “a regime”, compiuta dall’art. 3, comma 1, è nel senso della determinazione dei LEP con decreto legislativo, ma lo stesso art. 3 dispone che continua ad applicarsi la procedura introdotta nel 2022, che prevede la loro determinazione con d.P.C.m. ed è soggetta, fra l’altro, a un termine finale più ravvicinato (art. 1, comma 795, della legge n. 197 del 2022) rispetto a quello fissato alla delega legislativa (luglio 2026). L’accoglimento della questione relativa all’art. 3, comma 9, determina l’illegittimità costituzionale in via consequenziale, sopravvenuta a partire dall’entrata in vigore della legge n. 86 del 2024, delle norme la cui applicazione è tenuta ferma, cioè dei commi da 791 a 801- dell’art. 1 della legge bis n. 197 del 2022. Resta fermo il lavoro istruttorio e ricognitivo compiuto sulla base di tali norme.

Del resto, alla Corte è ben chiaro come, sul terreno dei LEP, si giochi la stessa sostanza dello Stato Unitario. Così, ha esplicitato che L’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali pertinenti (artt. 116, terzo comma, e 117, secondo comma, lettera m, Cost.), lette alla luce dei principi di solidarietà, di eguaglianza sostanziale e di unità (artt. 2, 3, secondo comma, e 5 Cost.), fa sì che, nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione, con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali, debba previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale, in nome di un principio di solidarietà che questa Corte ha declinato anche nel rapporto fra enti (sentenza n. 355 del 1994). La determinazione dei LEP (e dei relativi costi standard) rappresenta il necessario contrappeso della differenziazione, una “rete di protezione” che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale.

Infine, a proposito della devoluzione efficiente e responsabile di funzioni e di determinazione dei LEP, come antecedente imprescindibile alla stessa, la Corte ha richiamato un ulteriore criterio, stabilendo che poiché l’art. 116, terzo comma, Cost. presuppone che la regione richiedente possa esercitare in modo più efficiente rispetto allo Stato le funzioni trasferite, è necessario che le risorse occorrenti per il loro esercizio siano individuate con un criterio che assuma come parametro la gestione efficiente. Questo criterio, in linea di principio, esclude il riferimento alla spesa storica per il finanziamento delle funzioni trasferite, richiedendo la rimozione delle eventuali inefficienze che si annidano nella stessa, e costituisce il parametro per valutare oggettivamente se la devoluzione realizzi la migliore allocazione delle funzioni interessate, assicurando i vantaggi in termini di efficienza, che costituiscono un aspetto significativo del principio di sussidiarietà.

INCOSTITUZIONALITA’ DELL’ART. 8 COMMA 2 L. 86/2024

La Corte Costituzionale ha, infine, decapitato alcune disposizioni di ordine finanziario della l. 86/2024. In particolare, l’art. l’art. 8, comma 2 a mente del quale «La Commissione paritetica provvede altresì annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati per il finanziamento delle medesime funzioni. Qualora la suddetta ricognizione evidenzi uno scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi, anche alla luce delle variazioni del ciclo economico, il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata, adotta, su proposta della Commissione paritetica, le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione definite nelle intese ai sensi dell’articolo 5, comma 2, garantendo comunque l’equilibrio di bilancio e nei limiti delle risorse disponibili. Sulla base dei dati del gettito effettivo dei tributi compartecipati rilevati a consuntivo, si procede, di anno in anno, alle conseguenti regolazioni finanziarie relative alle annualità decorse, sempre nei limiti delle risorse disponibili».

La sentenza chiarisce come tale disposizione contraddica il principio di coesione, qualità ed efficienza, giacchè presuppone la legittima perpetuazione della spesa storica, l’esatta antidoto, cioè, al principio di equità ed efficienza nazionale. La norma si riferisce quindi ai fabbisogni di spesa e non ai fabbisogni tout court standard, con ciò potendo comportare, di conseguenza, che la misura iniziale della compartecipazione destinata a finanziare le funzioni oggetto del trasferimento sia definita ab origine sulla scorta della spesa storica sostenuta dallo Stato nella regione e non in base al criterio del costo standard o ad altro analogo criterio basato sulla gestione efficiente. La previsione di una compartecipazione calibrata solo sul criterio della spesa storica si dimostra irragionevole e viola l’art. 97, secondo comma, Cost., dal momento che esso può cristallizzare anche la spesa derivante dall’eventuale inefficienza insita nella funzione come esercitata al momento dell’intesa. Essa viola, altresì, il principio di responsabilità del decisore pubblico. La disposizione impugnata stabilisce, facendo riferimento, peraltro, ad un mero decreto interministeriale, che «annualmente» si provveda all’«allineamento» delle «aliquote di compartecipazione definite nelle intese», le quali non possono che essere previste anche dalle leggi rinforzate che le approvano. Tale meccanismo determina un effetto di deresponsabilizzazione in ordine all’esercizio regionale delle funzioni trasferite: anche una gestione inefficiente delle stesse potrebbe, infatti, finire per essere sostanzialmente ripianata “a piè di lista” dallo Stato. Né tale epilogo è escluso dalla previsione, nella disposizione censurata, che l’allineamento avvenga nel limite delle risorse disponibili, perché, quando queste lo siano, il suddetto effetto troverebbe appunto legittimazione. È di tutta evidenza quanto tale effetto contraddica la premessa…, secondo la quale il regionalismo differenziato si legittima solo nella misura in cui consente una maggiore efficienza dell’intero sistema.

Da qui l’eliminazione della norma ed il ritorno ad un ragionato approccio al tema dei LEP

GLI AMMONIMENTI AL PARLAMENTO
In tutto questo, la Corte non si esime dal bacchettare il Parlamento a proposito della mancata attuazione dello strumento previsto dall’art. 119 comma 3 della Costituzione per mitigare e superare le differenze tra i territori, ovvero il c.d. “fondo perequativo”. Ebbene, la Corte ha rilevato la mancata organizzazione dello strumento, peraltro previsto dall’art. 15 del d.lgs. n. 68 del 2011: un ordinamento che intende attuare la punta avanzata del regionalismo differenziato non può permettersi di lasciare inattuato quel modello di federalismo fiscale «cooperativo» (sentenza n. 71 del 2023), disegnato dalla legge delega n. 42 del 2009 e dai suoi decreti attuativi, che ne consente un’equilibrata gestione….va anche evidenziato che le norme relative a tali processi (artt. 7, comma 1, e 15, comma 5, del d.lgs. n. 68 del 2011) sono state sistematicamente rinviate, di anno in anno, dal tempo della loro emanazione, con ciò impedendo il completamento del modello: la finanza regionale è quindi rimasta in buona parte a carattere derivato e priva di meccanismi perequativi (salvo che per la sanità, in forza della specifica modalità di finanziamento, risalente al decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 56, recante «Disposizioni in materia di federalismo fiscale, a norma dell’articolo 10 della legge 13 maggio 1999, n. 133»).Questa Corte sottolinea dunque con forza la necessità di dare compiuta attuazione al descritto disegno nei termini previsti dalla richiamata, interrompendo quindi una volta per milestone tutte la prassi dei sistematici rinvii seguita sino ad oggi.

LA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE. COSA RIMANE DELLA LEGGE 86/2024

La Corte, in definitiva, ha pronunciato:

1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 26 dichiara giugno 2024, n. 86 (Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione), nella parte in cui prevede «[l]’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […]», anziché «[l]’attribuzione dispecifiche funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […]»;

2) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, terzo periodo, della legge n. 86 del 2024, nella parte in cui stabilisce che il negoziato, «con riguardo a materie o ambiti di materie riferibili ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 3, è svolto per ciascuna singola materia o ambito di materia», anziché stabilire che il negoziato, «con riguardo a specifiche funzioni riferibili ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 3, è svolto con riferimento a ciascuna funzione o gruppo di funzioni»;

3) …l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge n. 86 del 2024;

4) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge n. 86 del 2024, nella parte in cui prevede che «i LEP sono determinati nelle materie o negli ambiti di materie seguenti», anziché «i LEP sono determinati per le specifiche funzioni concernenti le materie seguenti»;

5) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, primo periodo, della legge n. 86 del 2024, nella parte in cui menziona «materie o ambiti di materie riferibili ai LEP», anziché «specifiche funzioni riferibili ai LEP»;

6) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, primo periodo, della legge n. 86 del 2024, nella parte in cui non prescrive che l’iniziativa regionale sia giustificata alla luce del principio di sussidiarietà;

7) …l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 86 del 2024;

8) …. l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge n. 86 del 2024;

9) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 9, della legge n. 86 del 2024;

10) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge n. 86 del 2024;

11) … l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 4, della legge n. 86 del 2024, nella parte in cui prevede la facoltatività del concorso delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica, anziché la doverosità su un piano di parità rispetto alle altre regioni;

12) …l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 2, della legge n. 86 del 2024;

13) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 2, 4, 5, 6, 8 e 10 della legge n. 86 del 2024;

14) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale, sopravvenuta a partire dall’entrata in vigore della legge n. 86 del 2024, dell’art. 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025).

Ne è rimasta travolta l’ossatura fondamentale della legge, che pretendeva di operare per assiomi, riversando tutte le materie previste dall’art. 116 comma 3 della Costituzione, senza alcun processo di valutazione, differenziazione, osservazione e distinzione, nell’ambito di ciascuna materia e degli specifici percorsi di funzione. Inoltre, nelle materie soggette ad una particolare regime di internazionalizzazione, non si è colta alcuna misura prudenziale e\o di proporzionalità, sì che potesse rendersi compatibile la devoluzione con il criterio necessario dell’efficienza ed utilità nell’interesse del sistema-paese.

E’ rimasto travolto, altresì, l’antecedente logico- giuridico del processo di devoluzione, ovvero la definizione dei LEP, sia con riferimento alle competenze spettanti, sia con riferimento ai contenuti, sia con riferimento alla necessità di superamento della spesa storica, ancora una volta confermata.

Sono rimasti alcuni principi, quali la conformità del principio di invarianza e di compartecipazione al gettito tributario, semprechè colti e guidati in un’ottica unitaria e di equilibrio di sistema. Troppo poco per immaginare la ripresa del cammino dell’autonomia differenziata sulla direttrice della l. 86/2024.

CONCLUSIONI
Al netto di tutte le altre questioni, ciò che risulta decisivo e costituzionalmente divisivo nella sentenza n. 192/2024 della Corte Costituzionale è la lettura finemente orientata dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, sovente utilizzato, dal mondo politico e non solo, per giustificare spinte isolazionistiche e, talora, separatiste di alcuni territori nei confronti di altri.

Rilevantissima, in questo contesto, è stata la chiamata della Corte al dovere di unità e coesione della Nazione, anche quando impegnata a spingere sul terreno di un regionalismo più avanzato. In questo senso, esemplare è la ricostruzione concettuale del principio di sussidiarietà, che mai può essere indifferenziato, ma che deve trovare senso nel principio di efficienza, efficacia, equità, unità nazionale e responsabilità.

Esattamente come esemplare è stata l’esegesi dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, da intendersi quale riflettuto e motivato strumento dell’equità, della solidarietà, della coesione nazionale.

Su tutto, si erge la chiamata della Corte alla responsabilità politica, attraverso la mutilazione della norma in materia di LEP, ancora una volta fondate sugli invisi costi standard, grimaldello attraverso il quale lo Stato ha generato e perpetuato profonde ed odiose discriminazioni tra i territori. Quella spesa storica va, semplicemente, eliminata ed onere della Repubblica, altro ammonimento della Corte, sarà di attivare compiutamente, e nella sua interezza teleologica, il fondo perequativo previsto dall’art. 119 comma 3 della Costituzione.

Un’ultima annotazione, a chiusura di questa disamina.

Il deciso intervento della Corte Costituzionale su una misura che era reputata vitale per la disciplina del futuro del nostro Paese dimostra l’importanza della terzietà e superiorità della Corte Costituzionale rispetto al potere politico ed alle maggioranze governanti.

La Corte Costituzionale è e rimane un presidio di libertà e lo sarà fino a quando la forma di nomina stabilita dalla Carta Costituzionale (1/3 Capo dello Stato, 1/3 Magistratura, 1/3 Parlamento in seduta comune, con maggioranza iniziale di 2/3 – art. 135 Cost, art. 3 legge costituzionale 87/1953), tesa a svincolare ogni singolo giudice costituzionale da possibili interessi politici o di parte, verrà scrupolosamente osservata.

Tale profilo dovrebbe fare riflettere molto il Parlamento a proposito dell’attuale condizione di stallo che si sta registrando a proposito della elezione dei quattro giudici di nomina parlamentare oggi mancanti. Non è costituzionalmente ricevibile, invero, il senso di certo dibattito, che vorrebbe il voto orientato a valorizzare gli equilibri politici in essere, piuttosto che i giuristi da chiamare. Una volta per tutte: i giudici costituzionali non possono e mai dovranno essere di area. Sarebbe la fine della democrazia e la fine della capacità delle istituzioni di orientare, tutte assieme e ciascuna secondo le proprie prerogative, la rotta del Paese. Se così non fosse stato, non avremmo assistito alla sentenza in commento ed avremmo colto, nelle titubanze che al suo posto ci sarebbero state, il senso di una Repubblica debole e prossima al suo decadimento.

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