San Giorgio Morgeto (RC) – La porta medievale del gigante

E’ una delle porte d’accesso al gigante che troneggia l’estremo sud dell’Italia, l’Aspromonte. San Giorgio Morgeto si staglia, pericolosamente, in uno scivolo impervio di montagna e ne segue il tratteggio, dando vita ad una piramide che potrebbe dirsi, insieme, groviglio, mosaico, intarsio. La leggenda vuole che sia stata fondata da Morgeto, figlio di Italo, re degli Enotri, popolo insediato nell’attuale Calabria, e che, dunque, San Giorgio Morgeto abbia una qualche rilevanza nella ricostruzione del toponimo Italia. A tal proposito, pochi sono i dubbi circa il fatto che l’Italia debba il suo nome al re Italo e, dunque, alla terra Calabra in cui regnò. Dionigi di Alicarnasso, nato circa nel 60 a.c., scrive nelle sue “Antichità Romane” che «Antioco figlio di Senofane scrisse sull’Italia le notizie più degne di fede e più vere derivanti dalle antiche tradizioni: questa terra, che ora si chiama Italia, anticamente la occupavano gli Enotri». Lo stesso Dionigi di Alicarnasso, ancora riferendosi ad Antioco di Siracusa (460 a.c.), riferisce che «La regione, che ora chiamasi Italia, anticamente tennero gli Enotri; un certo tempo il loro re era Italo, e allora mutarono il loro nome in Itali; succedendo ad Morgete, furono detti Morgeti; dopo venne un Siculo, che divise le genti, che furono quindi Morgeti e Siculi; e Itali furono quelli che erano Enotri». Insomma, la storia sembra essere passata, e non senza senso, dalle parti di San Giorgio Morgeto.

Ci si arriva attraversando le prime propaggini della piana di Gioia Tauro fino a Polistena e, in appena quattro chilometri, si ascende il primo crinale dell’Aspromonte. Lo scenario è improvviso e pittoresco. Un reticolo di case, fittamente connesse, tinteggia l’intero fianco della montagna fino, discosti di quel tanto da renderli di fattura e matrice superiore, ai ruderi sfumati del castello. L’attraversamento del borgo, rigorosamente da farsi a piedi, è un susseguirsi di vicoli tortuosi e ripidi. Ai piedi del crinale, subito la chiesa dell’Annunziata con, annesso, il convento Domenicano, dove Tommaso Campanella studiò e prese i voti. Il convento non è, purtroppo, visitabile. Sarebbe stato interessante attraversare i luoghi che videro forgiarsi l’animo intemerato e facondo dell’uomo che vagheggiò l’armonia dell’uomo e non piegò le sue idee ai persecutori. Rimane, di Tommaso, la denominazione dello spazio che si apre sul fianco del convento, chiamato “Largo Città del Sole”, allusiva all’opera più alta del filosofo di Stilo.

In un susseguirsi di stradine inerpicate e connesse, in cui colpisce il profondo silenzio, d’improvviso il borgo si rianima ed esibisce, appena ha inizio corso Giacomo Oliva, splendidi palazzi gentilizi, costruzioni anche tardo rinascimentali ed elementi che colpiscono lo sguardo, dal museo degli zampognari, alla bottega equo solidale dalle vaghe schiuse veneziane, dallo slargo della villetta comunale, dove campeggia il busto del musicista Francesco Florimo, fino a giungere, in piazza Morgeti, al bellissimo palazzo Milano. Di fronte, troneggia una sontuosa fontana in granito, chiamata non a caso ‘Fontana Bellissima’, del XVI secolo, dalla quale zampilla un’acqua fresca e pura discesa direttamente dalla montagna. A pochi passi, in un grazioso anfratto, ecco l’arco San Giacomo, che apre alla cappella gentilizia della famiglia Milano e, poco più in giù, la cappella del Carmine, di fronte alla quale gli ambienti del severo palazzo Ambesi ospitano i gentilissimi ragazzi della pro loco ed una piccola sezione museale dedicata alle arti ed alle utensilerie locali. Proseguendo, appare la chiesa di Sant’Antonio, dallo splendido coro in mattoni, di fronte alla quale si apre, attraverso una galleria che perfora il palazzo che dà forma alla piazzetta, l’omonima via.

Poi, è un susseguirsi di vichi, scalette, case costipate che, quando pienamente abitate, dovettero essere una magia di parole, suoni, cucine e giochi. Salendo, ecco la cappella della Pietà e, poco distante, la ‘scala beffarda’, una breve ascensione a zig zag che consente di superare, in pochi passi, un corposo dislivello. Al suo ingresso, un cartello informa delle origine mitiche della beffa, che coinvolgerebbero addirittura Re Artù, sua sorella Morgana, nota come Fata, e la spada di excalibur. L’ascesa continua, in una teoria sempre più fitta di vicoli e case, fino a che, giunti quasi al culmine, si incrocia ‘il passetto del re’, un piccolo vicoletto, catalogato come il più stretto d’Italia, di circa 40 cm. Secondo la leggenda, chiaramente decontestualizzata, in caso di emergenza il re Morgete faceva sparire le sue tracce, incuneandosi nel frastagliato intreccio di vichi e case, trovando riparo tra la sua fida gente. Siamo ormai al culmine della piramide immaginaria. Superato il passetto, si è quasi fuori del centro abitato e, improvvisamente, senza avviso, ci si ritrova dentro un bosco, in mezzo ad una natura fitta e rigogliosa. Si alza lo sguardo e, tra le coltri di tronchi e rami, ecco un guardiano fuliginoso e severo. Sono i ruderi del castello, una fortificazione che dovette essere poderosa e che il terremoto del 1783 ha gravemente insultato. Un cartello informa che le prime tracce di fortificazione si ebbero in epoca bizantina, tra il IX ed il X secolo. Poi, vennero i normanni che, con Ruggero I d’Altavilla, ne intensificarono la funzione di bastione di avvistamento e difesa. Nel tempo, il maniero seguì le sorti del processo di infeudazione, passando prima alla famiglia Caracciolo, poi, a partire dal XVI secolo, ai Baroni Milano, a fine secolo divenuti marchesi e, quindi, principi di Ardore e del Sacro Romano Impero. Fatto sta che il castello costituisce il vertice della piramide che sovrasta San Giorgio, divenendone il centro ideale e, come direbbero i pittori, il punto di fuga. E’, anche, una sorta di terrazza naturale verso la piana di Gioia Tauro, dalla quale poter scorgere la Calabria tirrenica dal suo sud al suo nord, in una sorta di abbraccio ideale ed emozionante. Il maniero, nello stato in cui è, non presenta ambienti abitabili. Solo le tracce delle sue mura, i basamenti delle torri, il maschio proteso verso la piana. Di fianco, al colmo di una splendida gradinata in granito, che ricorda un tempio Maya, una bellissima stele a ricordo dei caduti in guerra, dovuta allo scalpello di Fortunato Longo, nipote dello scultore Francesco Ieraci.

Il rientro è ben più semplice della salita. Si lascia il castello alla sua misteriosa solitudine e si scivola in giù attraverso il passetto del Re. Un ultimo sorso alla fontana Bellissima, un breve caffè al bar del centro ed un fugace ascolto delle variazioni linguistiche e di postura che il periodo estivo offre.
Finisce qui la visita ad un borgo sorprendente, imprevisto, variopinto e differente, nel quale i segni del tempo, soprattutto del medioevo, sono evidenti, talmente tanto che se ne fa una celebrazione annuale, in costumi d’epoca, ogni mese di agosto. Nel lasciare il borgo, v’è tempo per un ultimo sguardo ad alcuni suoi dettagli: le splendide logge, i portali in granito, i fregi, i portoni, gli stemmi, le maschere apotropaiche, i così detti ‘Bahari’, ambienti dai quali è possibile scorgere il mare. Tornano le antiche dimore, il Palazzo Ambesi, del XVI secolo, il palazzo Fazzari, del XVIII secolo, palazzo Florimo ed altri ancora senza nome.

Rimane il rammarico di non aver potuto visitare il convento domenicano, sorto sulle vestigia di un precedente monastero Basiliano, nel quale pare si venerasse un’icona ortodossa della Vergine odigitria, che indica il cammino. Rimane anche la sensazione, piacevole, di aver rimediato ad un colpevole vuoto, che San Giorgio Morgeto, con la sua lunga storia e le sue leggende, non meritava.

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