Morano Calabro, un borgo bellissimo

Ci sono dei luoghi che sembrano, per la loro conformazione, per i colori, la costellazione di monti e valli che li incorniciano, dei giardini di fiaba. Tra questi, Morano Calabro, in provincia di Cosenza, che si distende, quasi a riprodurre un formicaio di case e tetti, su un ripido colle risalendolo tutto, fino a risolversi, in un trionfo di edifici, stradine e vicoli addossati, nell’antico castello, che domina l’intera valle del fiume Coscile, l’antico Sybaris e, da est ad ovest, il massiccio del Pollino, il Dolcedorme, la Serra del Prete, l’altipiano di Campotenese, la piramide del monte Calcinaia. Un orizzonte variopinto e colorato di toni montani che cinge, come una danza di Matisse, il borgo e ne esalta le incredibili fattezze.
Morano Calabro ha tracce che profondono nel passato remoto. E’ bene non dimenticare che il borgo sorge a pochi chilometri dagli insediamenti rupestri della “grotta del romito”, in Papasidero, dove venne rinvenuto il graffito del “bos primigenius”, risalente a circa 11.000 anni fa. Non a caso, se ne conserva una riproduzione in città. I primi riferimenti strutturati si fanno però risalire al periodo degli Enotri, a cui si dovrebbe, secondo una vulgata, il toponimo. Trovato il sito, difatti, un gruppo di Enotri avrebbe esclamato: “Hic moremur”, qui moriremo. Tuttavia, fuori dalle suggestioni mitiche ed anche da certe evocazioni ellenistiche, la certezza storica dell’esistenza di Morano la si deve ad una pietra miliare del II secolo d.c., la c.d. ‘Lapis Pollae’, in cui il luogo viene descritto quale stazione della via consolare Capua-Reggio Calabria, detta “Annia-Popilia’.
 
Morano si presenta come un borgo collinare, all’interno di un invaso di montagne straordinarie che lo cingono quasi d’assedio, esaltandone i colori e le forme e rendendolo, insieme, fresco e ridente. La sua ricchezza urbana, costellata di pregevoli opere d’arte religiosa e civile, è dovuta certamente alla sua posizione strategica, al centro della valle del Coscile e punto di passaggio da nord a sud e da ovest ad est. Questo spiega, forse, la solida tradizione indipendentista della città, per lunghi tratti affrancata dal controllo feudale e, in un episodio, la battaglia di “Petrafocu” del 1076, addirittura vincitrice sui Saraceni. Tale episodio, che la tradizione Moranese celebra quale stigma della vocazione libertaria della città, è ancora oggi ricordato con l’annuale festa della bandiera ed attraverso lo stemma cittadino, in cui compare la testa di un moro con, sotto, la scritta “vivat sub umbra”, viva sotto l’ombra o, per traslato, tra i vinti.
 
Per il resto, Morano Calabro colpisce per il suo fastello di case affusolate sul dorso dell’erta, composta di due spalle adiacenti ma vorticosamente ascendenti. E, dentro, una serie di costruzioni pregevoli, ancorché ampiamente abbandonate, che ricordano i secoli decorsi, sia dal punto di vista religioso che dal punto di vista delle architetture civili. Quanto alle prime, come non ricordare il convento di San Bernardino, ai piedi del centro urbano, voluto dal casato dei Sanseverino per celebrare il suo potere e, forse, il controllo sul clero. A questo edificio di culto si deve, tra l’altro, un episodio mitico, occorso ai tempi della venuta del Gran Capitano Aragonese Consalvo da Cordoba, il quale, vinta una congiura dei Moranesi, incontrò per strada un fraticello che lo implorò di non infierire sulla popolazione. Ebbene, varcata la soglia del convento, il capitano aragonese riconobbe nella statua di San Bernardino il fraticello di strada. Decise così di accoglierne la supplica e risparmiò dalla vendetta la città ed i sui notabili.
 
La chiesa-convento di San Bernardino ha le fattezze sobrie ed essenziali delle architetture Francescane. Anticipata da un bellissimo porticato, che molto ricorda quello della vicina Chiesa della Riforma di San Marco Argentano, si avvale di un accesso di foggia tardo medievale, a sesto acuto, dal quale si accede alla navata centrale, sormontata da un bellissimo soffitto ligneo a cassettoni di finissima fattura. Di fianco il chiostro, nelle cui pareti, assai compromesse, si colgono tuttavia i segni di affreschi secolari, tra cui, ancora luminosissimo, quello dedicato a San Francesco che parla agli uccelli. Qui, preziosa si fa l’illustrazione della guida Franca Piluso, appassionata del luogo e capace di farne pulsare le ragioni architettoniche e spirituali. Poco più in alto, la Collegiata di Maria Maddalena, una chiesa dalle matrici normanne, oggi rimaneggiata secondo gusto neoclassico, con un campanile arretrato ed una cupola centrale, entrambi rivestiti in finissima maiolica. Di rilievo, al suo interno, la Madonna in marmo bianco di Antonello Gagini, risalente alla fine del quindicesimo secolo e, soprattutto, il magnifico trittico di Bartolomeo Vivarini, del 1477, nel quale si colgono le più alte poetiche pittoriche del periodo rinascimentale. Ancora poche centinaia di metri ed ecco il convento dei cappuccini, sobrio, essenziale, con una chiesa che accoglie finissime opere ad intarsio del ‘600.
 
Risalendo il centro storico, dalla via centrale detta “Vigna della Regina”, si va ripidamente, attraverso vicoli intrecciati e vorticosi, verso la parte alta della citta, al cui vertice si staglia la chiesa di San Pietro e Paolo, nella quale trovano posto ben quattro sculture marmoree di Pietro Bernini, padre di Gianlorenzo, dedicate a San Pietro, San Paolo, Santa Lucia e Santa Caterina d’Alessandria. All’interno, ancora, lo spettacolare crocifisso ligneo tridimensionale del ‘500, che muta la sua espressione a seconda del punto di osservazione, da Cristo sofferente, a Cristo implorante, a Cristo morente. Non distante, la chiesa dell’Annunziata dell’XI secolo, con la sua facciata neo classica, la sua cupola tonda ed il suo affaccio sul borgo e l’intera valle del Coscile. Quindi, l’ultimo ritaglio di strada prima di giungere al poderoso castello, il senso ultimo della lunga ascesa. Si tratta di un bellissimo maniero posto nella cima estrema del colle, dal quale è possibile osservare, a 360 gradi, i reticoli del borgo, le maestose cime del Pollino, il Dolcedorme, la Serra del Prete, il Piano di Ruggio, il Calcinaia e la profonda valle del Coscile. Un edificio che dovette essere enorme, essendo nel tempo divenuto dimora dei Sanseverino, ma anche presidio militare per centinaia di soldati. Le rovine di oggi, nel fascino che trasudano, sono il frutto di un feroce bombardamento occorso in periodo francese, ad inizio ‘800, nel quadro delle azioni di pacificazione filo francese del Sud Italia. Così che il castello si presenta, oggi, ampiamente compromesso, con due torrioni visitabili ed una sequenza di rovine che non ne scalfiscono la maestosità, che bene può apprezzarsi osservandolo dal basso, con i suoi contrafforti poderosi su un lembo di terra che sconfina nel precipizio.
 
Sulla via del rientro, ecco un’ultima sorpresa. E’ il giardino di Nibbio, in omaggio ad uno dei rapaci simbolo del Pollino, un luogo di rigenerazione, riconversione e recupero urbano ed identitario. E’ stato pensato e voluto dall’associazione “Centro studi naturalistici del Pollino “Il Nibbio”, guidata dall’Ing. Nicola Bloise, che non solo si è preoccupata di recuperare molte case abbandonate, destinandole ad albergo diffuso, ma ha altresì cristallizzato il “genius loci”, aprendo bellissimi luoghi di esposizione per celebrare il Pollino, i suoi animali, i suoi uccelli, i suoi insetti, le sue biodiversità. E così, ecco schiudersi i luoghi del museo ornitologico, di quello entomologico, di quello dedicato ai mammiferi stanziali, la fragorosa esposizione di farfalle, che lasciano un senso di appartenenza e, insieme, di fiducia nella capacità dell’uomo di non desistere. E poi, decorazioni di pietra un po’ ovunque, corrimano, perimetri di finestre, simpatiche sculture naif e, per finire, un piccolo bar, in cui riposare dalle fatiche dell’ascesa e colloquiare, con i ‘ragazzi’ del giardino di Nibbio ed altri occasionali avventori, di identità, di altro, di sè.
 
Un finale bellissimo, di una giornata bellissima, in un borgo bellissimo, tra gente bellissima.

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