Galatro sorge, in provincia di Reggio Calabria, a ridosso della piana di Gioia Tauro e quale ultimo lembo sud-occidentale della catena delle Serre. E’ un borgo di origini alto medievali, costituito da due nuclei, Magenta e Montebello, divisi geograficamente dal fiume Metramo, che vi scorre dentro, disegnando balze e piccole cascate. Tuttavia, il Metramo non è l’unico fiume del borgo. Vi confluiscono altri due piccoli corsi, il Fermano, proveniente dall’attiguo monte Livia ed il Rio Secco.
Le ‘due’ Galatro sorgono, idealmente, attorno alle loro chiese, quella della Madonna Santissima della Montagna, nel quartiere Magenta e quella di San Nicola, nel quartiere Montebello. In quest’ultima sono conservate opere di primissimo rilievo, tra cui un cinquecentesco trittico marmoreo del Gagini ed un non meno straordinario marmo a tutto tondo del quattrocento, raffigurante San Nicola. Quanto alla Chiesa della Madonna della Montagna, di assoluto rilievo è il tabernacolo, in forma di bassorilievo marmoreo.
Sulla riva sinistra del Metramo, Magenta presenta una linea ascensionale di tipo medievale, che si chiude, idealmente, con il calvario, posto all’esatto vertice dell’altura e che si raggiunge attraverso una teoria di vicoli e scalette, contrappuntata dalle ‘stazioni’ della passione di Cristo, disegnate su piccoli tabernacoli. Da lassù è possibile osservare, come in un abbraccio, le propaggini della piana di Gioia Tauro e, più in là, la costellazione dei paesi, fino al mar Tirreno. Sulla riva destra, invece, il borgo si dilata, con spazi più ampi, dominato dalla chiesa di San Nicola e la piazza antistante. Nel mezzo, il Metramo è sormontato da vari ponti ed è accompagnato da un dolce ‘lungofiume’, ben alberato e munito di slarghi e memorie. Da lì, ad appena un chilometro, è possibile raggiungere le acque termali ed il relativo stabilimento, a cui si giunge seguendo il corso del Fermano.
Già tutto questo meriterebbe a Galatro una visita.
Tuttavia, il borgo custodisce, condividendolo con i paesi vicini, un segreto, racchiuso nel ventre del monte Sant’Elia che lo sovrasta. A circa quattro chilometri, difatti, sorgono le rovine del Monastero basiliano di Sant’Elia, luogo di culto che fu importantissimo, nel quale, si racconta, veniva custodito addirittura il corpo acefalo del Santo. Raggiungerlo da Galatro non è semplice. Lo si può fare con un mezzo a quattro ruote motrici, necessario per vincere la pendenza, in alcuni tratti oltre il 30%, oppure a piedi, armandosi di acqua, pazienza e desideri. Ed infatti, giunti in cima, ecco sciogliersi in lontananza le “due” Galatro, il Metramo che vi scorre dentro e, più oltre, la piana fino al mare. Da lì, dopo aver camminato lungo un sentiero incredibilmente di sabbia, come i costoni che lo contornano, si raggiunge finalmente l’antico sito, che si presenta umile e sobrio quanto abbandonato.
Il complesso monastico descrive, più o meno, un rettangolo, nel quale campeggiano due entrate ad arco in cui giacciono, tra rovi foltissimi ed acuminati, due splendidi cani. Una delle pareti esterne – quasi un miraggio – appare ampiamente verde, grazie ad uno strano rampicante che vi ha messo dimora ed ai suoi tronchetti, pigiati alla parete come salamandre. I vani esterni del monastero sono totalmente persi, mentre l’area interna, quella del chiostro, si presenta, nelle strutture, ancora solida, con la sua sequenza di archi e corridoi a botte. Nessuna opera d’arte affiora, né alcuna altra traccia di vita. Dal luogo, abbandonato da tempo immemorabile – forse per via dei terremoti, forse a causa delle chiusure monastiche dovute alle regole napoleoniche – si ascolta, in lontananza, il suono del fiume Potame, che però scorre molto più in giù. Sicchè, rimane il dubbio del perchè di quell’ardua localizzazione: forse per sfuggire alle scorrerie saracene? Forse per evitare le furie iconoclaste? Resta, in quel silenzio rotto dalle acque lontane del fiume e dallo stanco ronzare degli insetti, un senso di smarrimento e meraviglia, generato dal pensiero delle lunghe storie di vita e di preghiera che in quei luoghi ebbero forma e che oggi sembrano chiedere di poter ancora, nelle forme e nei modi che si vorranno, dare testimonianza di sè.