PREMESSA CONCETTUALE
In data 15.11.2023, il Governo ha approvato il Disegno di Legge n. 935 recante: “ Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”. Trattasi di un procedimento di revisione costituzionale che mira a generare, come la rubrica recita, condizioni di migliore stabilità governativa, attraverso: a) la costituzione di una relazione elettorale diretta tra Corpo Elettorale e Presidente del Consiglio; b) un meccanismo di connessione elettiva tra la maggioranza parlamentare ed il Presidente eletto a suffragio universale; c) la piena politicizzazione del Senato della Repubblica, attraverso la cancellazione dei cinque Senatori a Vita eletti dai Presidenti della Repubblica.
La riforma interviene su un assetto costituzionale modulato, dai padri costituenti, su basi concettuali e di pensiero rigorose e, nella ratio, differenti. Il Presidente del Consiglio venne pensato quale organo di vertice dell’Esecutivo, ma come un primus inter pares, legato al Corpo Elettorale solo in via indiretta: a) attraverso il potere di nomina del Capo dello Stato, ai sensi dell’art. 92 della Costituzione; b) attraverso il meccanismo della fiducia votata dalle Camere, prescritta dall’art. 94 quale condizione imprescindibile per la legittimazione giuridica ed istituzionale del Governo.
Tale costrutto non fu frutto di casualità, ma espressione di una forma istituzionale precisa, imperniata: a) sulla primazìa del Parlamento, quale espressione diretta della sovranità popolare; b) sulla funzione di equilibrio e controllo interistituzionale demandata al Presidente della Repubblica, officiato quale “Garante dell’unità nazionale” dall’art. 87.
In definitiva, nell’architettura attuale, il Presidente del Consiglio rappresenta una corretta mediazione tra il dovere di terzietà, assicurata dalla designazione del Capo dello Stato, e la necessaria corrispondenza con il Corpo Elettorale, assicurata, attraverso il meccanismo della fiducia, dal Parlamento.
Del resto, una simile mediazione è coerente con la costruzione dell’Italia quale ‘Repubblica Parlamentare’, forma che individua nel Parlamento, espressione diretta del popolo, l’epicentro del sistema e l’Istituzione più di ogni altra chiamata a fondare l’identità istituzionale del sistema-paese. In altri termini, è nel Parlamento che pulsa la ragione ultima della sovranità popolare, come delineata nell’art. 1 comma 2 della Costituzione (“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”), pur nel pluralismo paritario che vede coinvolti altri due poteri separati ed indipendenti, l’Esecutivo ed il Giudiziario. Basti annotare che è il Parlamento, con l’addenda delle rappresentanze regionali, a determinare l’elezione del Presidente della Repubblica (art 83 Cost.) ed a comporre, per una percentuale pari ad un terzo, Organi di primario rilievo quali la Corte Costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura.
II – GOVERNO E STABILITA’: UN RAPPORTO DIFFICILE
A
Criticità del sistema attuale.
Tornando al Presidente del Consiglio ed al Consiglio dei Ministri, occorre riconoscere che l’impianto costituzionale ha evidenziato, nel tempo, criticità di non poco conto. Soprattutto con riferimento alla stabilità dei Governi, nel tempo erosa dalla parcellizzazione del consenso e dalla conseguente difficoltà di costituire maggioranze solide e durature. Il dovere della mediazione ha fatto velo, in queste condizioni, alla qualità dell’amministrazione ed i governi sono sorti sulla base di compromessi, poteri di interdizione e transumanze partitiche non sempre traguardati al rialzo. A latere di tale fenomeno, ne è sorto un altro, che ha visto affermarsi la necessità di un nuovo lessico politico, capace di dare forma al compromesso ed alla mediazione. Basti ricordare, per intendere, i governi delle ‘convergenze parallele’, o quelli della ‘non sfiducia’.
Il dato finale fu che, fino al 1994 – data in cui, a seguito dell’inchiesta ‘Mani Pulite’, si vuole finita la prima fase della Repubblica – l’Italia ha visto sorgere e morire, in appena 46 anni, ben 47 governi, con una media di sopravvivenza inferiore ad un anno. Con quali conseguenze sul terreno della continuità e della coerenza dell’agire politico è facile immaginare.
B
Occorre interrogarsi circa le matrici di tale fragilità e verificare se essa sia filiazione della natura ‘Parlamentare’ del sistema, o se, piuttosto, non sia la risultante del sistema di elezione prescelto.
Quel che è certo è che i Costituenti, proprio per valorizzare il ruolo del Parlamento ed evitare la formazione di maggioranze fuori dall’Assise Parlamentare, rifuggirono l’ipotesi di ancorare indissolubilmente il Governo e la sua Presidenza agli esiti elettorali e costituire, così, una simmetria meccanica tra responso delle urne e potere esecutivo. Il prezzo di questa deriva fu, per un verso, la fatica del lavoro di mediazione, spinto sino a dimensioni talvolta imperscrutabili, per altro verso la necessità crescente di agire sul sistema elettorale, allo scopo interdire o, perlomeno, frenare il rischio della frammentazione e della ingovernabilità.
Fu esattamente con la fine della prima fase repubblicana che, a proposito di modelli elettorali, si aprì una fase ‘costituente’ che, nella sostanza, non ebbe più fine.
III – CRONOLOGIA DELLE LEGGI ELETTORALI ED EFFETTI SULLA STABILITA’
A
Decreto luogotenenziale n. 70 del 10.3.1946
A seguito della caduta del fascismo ed in linea a nuovo spirito democratico e libertario, con decreto luogotenenziale n. 70 del 10.3.1946, il Paese venne dotato di una legge elettorale a struttura rigorosamente proporzionale, priva di premi di maggioranza e soglie di sbarramento. Si volle perseguire, quale riflesso della radicale rottura con il dirigismo del passato, una rappresentanza quanto più possibile estesa in Parlamento, nel quale avrebbero dovuto trovare posto anche le voci più flebili e meno diffuse del Paese. Tale sistema mantenne integre le sue premesse fino al 1993, anche a seguito degli aggiustamenti dovuti al testo unico n. 361 del 30 marzo 1957.
Per vero, un tentativo di intervenire sulla coesione delle maggioranze e sulla stabilità governativa si registrò con la legge n. 148/1953, istitutiva di un premio di maggioranza, pari al 65% dei seggi, per la coalizione che avesse conseguito la maggioranza assoluta dei consensi. Tale legge passò alla storia come “legge truffa”, come tale bollata dalle opposizioni che temevano una riduzione del loro peso all’interno delle due Camere. Tuttavia, nelle uniche elezioni in cui ebbe attuazione, nessuna coalizione totalizzò la soglia minima del 50%, così che non sviluppò alcuna incidenza.
Il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico prima, e l’inchiesta ‘Mani Pulite’ poi, misero a nudo l’insostenibile fragilità del sistema, inducendo un riordino profondo, capace per un verso di fronteggiare la sempre più vistosa frammentazione del consenso, per altro verso di assicurare la formazione di maggioranze non solo stabili ma anche coese. Da qui, i plurimi interventi che, a partire dal 1993, hanno accompagnato la vita politica ed istituzionale del Paese.
B
Leggi n. 276 e 277 del 4 agosto 1993
Il primo intervento si ebbe con le leggi n. 276 e 277 del 4 agosto 1993, relatore l’On. Sergio Mattarella, che introdusse un sistema misto, per il 75% maggioritario su collegi uninominali a turno unico, per il restante 25% proporzionale, mediante liste bloccate, senza preferenze ed una soglia di sbarramento pari al 4%. Tale sistema sopravvisse per 12 anni, fino al 2005 ed accompagnò otto governi che, pertanto, ebbero una durata media di 18 mesi.
Il nuovo sistema, se pure migliorò la stabilità governativa, dovette tuttavia scontare un prezzo non indifferente in termini di coesione, giacchè, essendo fondato su un turno unico, impose coalizioni estese ed eterogenee, esposte a forti e perenni conflittualità interne. La conseguenza fu che i governi furono chiamati a forme ancora più evidenti di mediazione, foriere, sovente, di rallentamento o paralisi operativa.
C
Legge n. 270 del 21.12.2005
Nell’intesa di superare tale limite, con legge n. 270 del 21.12.2005, si tornò ad un regime proporzionale. Vennero confermate le liste bloccate, prive di preferenze, le soglie di sbarramento e si introdusse un premio di maggioranza, attribuito alla lista o coalizione vincente, pari al 55% dei seggi. Il premio operava differentemente per Camera e Senato, per la prima computandosi su base nazionale, per il seconda computandosi, ai sensi dell’art. 57 della Costituzione, su base regionale. La conseguenza è che gli esiti avrebbero potuto facilmente risultare asimmetrici. Fatto sta che tale legge accompagnò la XV (2006), XVI (2008) e XVII (2013) legislatura, fino al 2018 e generò sei governi, con una media di sopravvivenza pari a 26 mesi.
Tuttavia, la legge conteneva due iniquità, che furono colte dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 1 del 2014, la dichiarò parzialmente incostituzionale. Per un verso si asserì che la mancanza di una soglia minima di consenso rendeva il premio potenzialmente distorsivo e, dunque, contrario ai principi di rappresentatività; per altro verso si ritenne il sistema delle liste bloccate contrario alla libertà di voto che pertanto, attraverso una modalità additiva, venne ripristinato. La conseguenza fu la reintroduzione del sistema proporzionale puro, coniugato alla possibilità di esprimere un’unica preferenza (il c.d. “consultellum”). Rimane da dire che tale disciplina non ebbe mai ad inverarsi, essendo stata sostituita, in vista delle elezioni del 2018, dalla legge n. 165 del 3.11.2017, il c.d. Rosatellum bis.
D
Legge n. 165 del 3.11.2017
Per vero, dopo la sentenza della Consulta n. 1/2014, si registrò un ennesimo tentativo di riordino elettorale, con la legge n. 52 del 6.5.2015. Tale legge, tuttavia, venne dichiarata incostituzionale con sentenza n. 35 del 25.1.2017, nella parte in cui prevedeva il doppio turno di ballottaggio e lasciava i capi lista, ammessi alla pluricandidatura, liberi di scegliere in quale collegio essere proclamati eletti. Fatto sta che essa non ebbe alcuna applicazione, giacchè venne superata dalla la legge n. 165 del 3.11.2017, che introdusse un modello grazie al quale il 37 % dei seggi viene assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre il restante 61% ripartito con criterio proporzionale, senza voto di preferenza, né possibilità di voto disgiunto. Il restante 2% viene scelto tra cittadini residenti all’estero. Tale sistema accompagna la vicenda parlamentare italiana dal 2018 ed ha visto avvicendarsi, ad oggi, n. 4 governi, per un media di 15 mesi.
IV – COSTITUZIONE RIGIDA E PROCEDURA AGGRAVATA: IL SENSO DELL’ART. 138 DELLA COSTITUZIONE
A
La successione di modelli elettorali dimostra, per un verso, l’incidenza degli stessi sulla costruzione delle maggioranze politiche, per altro verso che la stabilità dei Governi non dipende, necessariamente, dall’impianto costituzionale. Detto diversamente, il tema della governabilità non risiede – in un regime democratico, nel quale i parlamentari non sono legati ad alcun vincolo di mandato (art. 67 Cost.) – tanto nella forma di Stato, quanto nel costrutto che accompagna le regole elettorali. Ne segue che, piuttosto che in ambito costituzionale, la questione andrebbe fronteggiata in sede di legislazione ordinaria, con uno sguardo, tuttavia, che deve essere alto ed inclusivo, scevro cioè da interessi di parte o di breve periodo.
In questa contesto, si inserisce l’intervento di riordino costituzionale promosso con d.d.l. n.935/2023.
B
Dal punto di vista della tecnica redazionale, l’intervento si iscrive correttamente nell’alveo dei principi revisionali previsti dall’art. 138 della Costituzione. Essi, difatti, autorizzano processi di mutazione della Carta, nell’intesa, tuttavia, che se ne preservi la coerenza, la comune ispirazione e si evitino scosse all’equilibrio generale. Si ricorda, in questa ottica, che l’iter di revisione prescrive un procedimento ‘aggravato’, mediante doppia lettura in ciascuna Camera, a distanza di tre mesi ed a maggioranza assoluta, con opportunità di referendum confermativo in ipotesi di mancata approvazione con maggioranza qualificata di due terzi. Ciò quale conseguenza della natura ‘rigida’ della Costituzione Italiana e quale freno ‘ideologico’ ad ipotesi di riordino integrale. In tutto questo, le materie emendabili non sono casisticamente determinate, se non con riferimento all’unica preclusione fissata dall’art. 139, a mente del quale La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
La prassi ha validato la predetta lettura restrittiva, peraltro conseguenza della matrice libertaria della nostra Costituzione, non incline a tentazioni dirigistiche, magari suggerite da contingenze liquide. Su tale versante, è utile ricordare il dibattito che accompagnò, in aula, la stesura dell’art. 138 e, in particolare, l’intervento del deputato Paolo Rossi, poi divenuto Presidente della Corte Costituzionale e Relatore dell’articolo, il quale ebbe ad osservare, con immagine assai efficace, che La Costituzione non deve essere un masso di granito che non si può plasmare e che si scheggia; e non deve essere nemmeno un giunco flessibile che si piega ad ogni alito di vento. Deve essere, dovrebbe essere, vorrebbe essere una specie di duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l’azione del fuoco e sotto l’azione del martello di un operaio forte e consapevole!. Il tema è stato efficacemente chiosato dalla prof.ssa Donatella Morana, la quale ha ricordato che “gli interventi che sostanziarono il dibattito in Assemblea mostrano in modo inequivoco i segnali di timori opposti eppure compresenti, e il bisogno di trovare soluzioni che li superassero: si voleva che la Costituzione fosse rigida, ma che non lo fosse troppo; che fosse stabile, ma non chiusa al futuro; duttile ma non gracile”[1].
Ebbene, tale modalità ha trovato sponde nell’esperienza revisionale maturata nei 75 anni di vita della Costituzione. Si ricordano, per esemplificare, gli interventi: a) sull’art. 111, con l’introduzione del c.d. giusto processo’; d) sull’art. 68, con la riformulazione del principio di immunità parlamentare; c) sull’art. 9, con l’introduzione di modelli ambientali ed esistenziali prima solo dedotti (La Repubblica Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali); d) sugli artt. 56 e 57, a proposito del ridimensionamento numerico delle due Camere.
L’art. 138 della Costituzione, in definitiva, si è rivelato un formidabile strumento di adattamento della Carta, in linea con l’evoluzione dei sistemi sociali e la mutazione del comune sentire e nel doveroso mantenimento dell’ispirazione originaria.
Tutte le volte, invece, in cui si è preteso di cambiare corpi estesi della Costituzione, sono emersi difficoltà di approccio ed esiti fortemente contrastati. Si pensi al fallito tentativo di riforma operato nel 2016 e bocciato dal Corpo Elettorale, nel quale si fecero coesistere, in un unico percorso, interventi estesi su tutti i distretti dell’assetto costituzionale. Si pensi ancora al processo di riordino dell’intero titolo V, questa volta confermato da referendum, in cui si è agito sull’intero assetto delle relazioni tra Stato e Regioni e sulla distribuzione dei relativi poteri (legge costituzionale n. 3 del 2001). Ebbene, quell’intervento ebbe, con il merito di avvicinare le centrali decisionali ai territori, il difetto storico di destabilizzare la coesione del Paese, parcellizzarne a dismisura i momenti decisionali, sia legislativo che di governo, moltiplicare i centri di costo e di indebitamento, in definitiva generando le condizioni per una dilatazione della forbice tra regioni forti e regioni deboli. Tra l’altro, al netto di ogni considerazione di merito, fu in quell’occasione che si introdusse l’art. 116 terzo comma, base delle richieste – oggi fonte di gravi contrasti nel Paese – di ‘autonomia differenziata’ avanzate da alcune Regioni.
V – GLI EFFETTI DEL DDL 935/2023 SUL SENATO E SUL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
A
Occorre, a questo punto, esaminare i contenuti della riforma ed intenderne il senso e le conseguenze.
Il disegno di legge è ben consapevole della portata dell’intervento, tant’è che, così in seno alla ‘Relazione’ di accompagnamento, come in seno al documento di ’Analisi tecnico-normativa’, si incarica di evidenziare la mancanza di controindicazioni o contrasti con procedure costituzionali in essere, con il principio di sussidiarietà fissato dall’art. 118, con le fonti comunitarie ed internazionali cui l’Italia partecipa.
Tuttavia, manca nei predetti documenti ogni riferimento agli impatti sulle varie articolazioni della Repubblica e, segnatamente, sul Capo dello Stato e sul Parlamento, organi ampiamente incisi e, come si vedrà, ridimensionati a seguito della riforma.
B
Il potere di nomina dei Senatori a vita
Un primo effetto risulta dall’art. 1 comma 1 del d.d.l. di revisione, dove si prescrive, senza che la Relazione indulga in alcuna spiegazione, che Il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione è abrogato.
Trattasi della prerogativa, esclusiva del Capo dello Stato, di nominare cinque Senatori a vita, tra le personalità che illustrano particolarmente l’Italia in ogni ambito del vivere. Una misura, sul piano quantitativo, non di poco conto, considerando che, su un plenum di 200 membri, cinque Senatori a vita valgono il 2,5% del totale. E’ del tutto evidente che, svuotato di tale prerogativa, il Capo dello Stato vede ontologicamente eroso il suo potere di incidere sugli orientamenti del Senato, plesso, si ricorda, chiamato ad esprimere la seconda carica dello Stato: Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato (art. 86).
Tuttavia, vi è un riflesso anche qualitativo nel potere di nomina in testa al Capo dello Stato. Ed invero, munire il Senato di cinque personalità di altissimo profilo negli ambiti delle scienze, delle arti, del costume, equivale a nutrirlo di prudenze, passioni, competenze non comuni. Con quali vantaggi per il dibattito e per l’autorevolezza dell’Organo è facile intendere.
In definitiva, effetto oggettivo della abrogazione dell’art. 59 della Costituzione è: a) per un verso la restrizione delle prerogative del Capo dello Stato, del tutto azzerate quanto alla composizione della prima Camera Parlamentare; b) per altro verso, la costruzione di un Senato a matrice integralmente elettiva, certo politicamente meglio strutturata ma, nel contempo, priva di cinque attori per definizione avulsi dalle logiche di appartenenza ed inclini, piuttosto, alle idealità alte.
C
Il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica
Altro colpo alle prerogative del Presidente della Repubblica è contenuto nel successivo art. 2 del ddl, a mente del quale Al primo comma dell’articolo 88 della Costituzione, le parole: «o anche una sola di esse» sono soppresse.
Il primo comma dell’art. 88 descrive il potere del Capo dello Stato di sciogliere le Camere e di poterlo fare anche per frazioni: Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.
La norma ha, nel costrutto generale della Costituzione, un senso preciso, giacchè i Costituenti vollero le due camere differenti, non solo per numero, ma anche per metodica di elezione. Ed invero, mentre la Camera dei Deputati viene eletta su base nazionale (art.56), il Senato della Repubblica viene eletto su base regionale (art.57) e si avvale, come visto, dell’apporto dei Senatori a vita (ex Presidenti della Repubblica, oltre quelli nominati). Ebbene, tale differenza è idonea a generare, a parità di percentuali di consenso su scala nazionale, differenti effetti sui seggi regionali e sull’equilibrio politico. Tanto più che, prima della novella del 2022, il numero di elettori chiamati ad eleggere il Senato, per ragioni di età (età minima 25 anni) era ampiamente inferiore a quello coinvolto per l’elezione della Camera dei Deputati (età minima 18 anni). Ecco spiegato il motivo per cui l’art. 88 della Costituzione aveva consentito la partizione del potere di scioglimento, proprio allo scopo di rimediare ad eventuali condizioni di stagnazione e/o delegittimazione riferibili ad una sola delle Camere. Peraltro, l’eventualità di uno scioglimento anticipato venne, dall’art. 88, costruito su base innominata, nel senso che non si intese tipizzarne la casistica, lasciando al libero apprezzamento del Capo dello Stato, “sentiti i loro Presidenti” ed in quanto “garante dell’unità nazionale”, di valutarne i moventi ed i modi. Da qui l’opportunità, assegnata alla massima Autorità di garanzia del Paese, di procedere anche separatamente.
Ebbene, è di ontologica evidenza che la cassazione di tale ultima prerogativa determina un doppio effetto: a) per un verso, la restrizione degli strumenti utili a sorvegliare le istituzioni e gestirne le crisi; b) per altro verso l’oggettivo depotenziamento dei poteri del Presidente della Repubblica.
VI – L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO A SUFFRAGIO UNIVERSALE
A
Obiettivi e strumenti
Il centro della riforma è, tuttavia, il sistema di preposizione del Presidente del Consiglio e di formazione della sua maggioranza parlamentare.
La Relazione di accompagnamento richiama, con vigore, all’urgenza di incentivare la relazione diretta del Capo di Governo con i Corpo Elettorale e, per questa via, di dare una spinta alla sua legittimazione politica ed alla governabilità del Paese. In essa si legge che La presente proposta di revisione costituzionale ha l’obiettivo di offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di governo italiana, cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il «transfughismo» parlamentare. Tali criticità hanno prodotto riflessi significativi non solo sull’assetto istituzionale del Paese, ma anche, e soprattutto, in campo economico e sociale, con risvolti ben percepibili, quotidianamente, nella vita dei cittadini. Al contempo la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione, attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico.
L’art. 92 della Costituzione, nella versione attuale, prevede che:
1. Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri.
2. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri.
L’iniziativa e l’azione di impulso alla formazione del Governo ed alla designazione del suo Presidente risiedono dunque, a costituzione vigente, nel Presidente della Repubblica, che le esercita nell’esercizio della sua funzione di “garante dell’unità della nazione” e, dunque, utilizzando quale metodo l’equilibrio e quale strumento il confronto con le parti, il Parlamento, i partiti, le parti sociali. Tale, del resto, è la prassi costituzionale formatasi sin dagli albori della Costituzione, frutto della natura non autosufficiente della designazione del Capo dello Stato, da validarsi in sede parlamentare attraverso il voto di fiducia (art. 94).
Ebbene, tale quadro viene totalmente mutato dall’art. 3 del d.d.l. in esame, che propone una profonda riedizione dell’art. 92. Il primo comma ripete, pedissequamente, quello vigente:
Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri.
Il percorso di revisione ha inizio, invece, a partire dal secondo comma, a mente del quale:
2. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati Presidente del Consiglio dei ministri.
3. Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i ministri .
La norma, nella dichiarata intesa di potenziarne la legittimazione e la stabilità, interviene sul meccanismo di costruzione del potere esecutivo ed agisce su due direttrici: a) il rafforzamento del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni; b) il potenziamento della coesione politica delle due Camere, attraverso un modello elettorale che, secondo i principi di rappresentatività e governabilità, assegna un premio su base nazionale che garantisca il 55% dei seggi alle liste ed ai candidati collegati.
Un riordino profondo ed affatto neutro, come è facile intendere, idoneo ad influenzare fortemente gli assetti costituzionali. Esso propone non solo un deciso rafforzamento del potere esecutivo, ma anche una sua primazìa nel costrutto generale dei poteri. Un pensiero politico differente rispetto a quello perseguito dai Costituenti del 1948, fondato sul primato giuridico e funzionale del Parlamento. Esso esclude che l’epicentro del sistema debba risiedere nel solo Parlamento e, dunque, nel potere legislativo, e propone che lo stesso debba condividersi con il Governo ed il suo Presidente e, dunque, con il potere esecutivo. Ciò in ragione di una comune matrice costitutiva, dovuta al suffragio universale e diretto di cui entrambi dispongono. Una visione duale, dunque, nella quale la caratura del Presidente della Repubblica, fatalmente, scema e sfiorisce.
B
Implicazioni sull’assetto costituzionale e la forma di governo.
E’ del tutto evidente che siffatta costruzione, per quanto astrattamente possibile e legittima, abbia attitudine a modificare decisamente l’equilibrio costituzionale in essere, fondato su un Parlamento forte, espressione diretta della sovranità popolare, e su un Capo dello Stato che – in quanto eletto dal Parlamento in seduta comune, con estensione alle Regioni, con maggioranze qualificate e per periodo (sette anni) che travalica la durata delle legislature (cinque anni) – è garanzia e testimonianza di terzietà ed equilibrio interistituzionale.
Con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, l’ossatura del sistema si scompone ed aggiunge alla diade di cui sopra un terzo elemento che, come nella vicenda delle monete forti che scacciano quelle deboli, è idoneo a spegnere la luce del Capo dello Stato e, addirittura, opacizzare anche quella del Parlamento. Nel primo caso, perché il Presidente della Repubblica, ancorche eletto con modalità qualificate, manca di un raccordo diretto con il popolo sovrano: nel secondo caso perché la legittimazione degli Organi legislativi non è soggettiva ma collegialmente distribuita, mentre il Presidente del Consiglio godrebbe di una legittimazione nominativa, uti singulo, dunque assai più pervasiva ed influente. Certamente, con tale esito, scemerebbe anche il valore del terzo potere ‘regnante’ evocato da Montesquieu[2], la Magistratura (di cui il Capo dello Stato presiede l’organo di autogoverno, il C.S.M.), che, priva di qualunque raccordo con il popolo per cui amministra la giustizia, è esposta maggiormente alla pressione di un Esecutivo forte.
VII – LE CRITICITA’ PRESENTI NEL DDL 935/2023
A
Il riordino pensato con la norma di revisione non è tuttavia immune da criticità, anche riguardo agli obiettivi di stabilità da traguardare.
Nel costrutto della riforma, ben evidenziato dalla ‘Relazione’ di accompagnamento, occorreva legare il destino del Presidente eletto a quello della sua maggioranza. In funzione di questo obiettivo – e per la prima volta – il d.d.l. ha inteso introdurre in Costituzione un criterio elettorale preciso, inserendo una modalità premiale, capace di dare forza numerica all’azione di governo.
Premessa di tale costrutto è il raccordo fiduciario corrente tra Governo e Parlamento, già previsto – e pienamente confermato – dall’art. 94 comma 1, che lo ha veicolato attraverso una mozione motivata e votata per appello nominale (art. 94 comma 2). Anche il terzo comma dell’art. 94 è rimasto, nella sua prima parte, integro: Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.
Dunque, la fiducia costituisce l’architrave su cui, anche nel nuovo ordine, viene costruita la legittimazione giuridica del Governo.
Tuttavia, allo scopo di garantire stabilità all’Esecutivo, non poteva bastare l’elezione diretta del suo Presidente, ma serviva un congegno capace, per un verso, di dissuadere i cambi di campo, per altro verso di potenziare gli effetti elettorali sulle maggioranze, per altro verso ancora di legare la maggioranza al Presidente eletto. A tale scopo, la novella ha provvisto il sistema di una serie di appositi meccanismi.
In primis, è intervenuta sull’art. 94, integrato con la previsione che Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere. La norma ipotizza che il Presidente eletto non riceva nemmeno in prima istanza la fiducia del Parlamento e che, dunque, la scollatura con la maggioranza si registri da subito. In questo caso, la scelta della riforma è quella di legare il destino così del Governo come del Parlamento al Presidente del Consiglio eletto, attraverso lo scioglimento immediato delle Camere. Le conseguenze sono, sul piano istituzionale, drammatiche, giacchè si pretende l’azzeramento delle istituzioni repubblicane, senza alcuna possibilità di rimedio, non ascrivibile nè al Capo dello Stato, né al Parlamento. In definitiva, si determina lo svuotamento del Parlamento, quale luogo di dialogo e di costruzione di possibili alternative politiche, ma anche del Presidente della Repubblica, chiamato ad una funzione meramente notarile.
Riassumendo.
1.Il Presidente della Repubblica non designa e nomina più il Presidente del Consiglio sulla base di sue valutazioni e scrutini comparati, ma semplicemente prende atto dell’esito del voto a suffragio universale, rispetto a cui si limita a svolgere un ruolo di officiante neutro e passivo.
2. In caso di discrasia tra Presidente del Consiglio eletto e Parlamento, con diniego di fiducia, il Presidente della Repubblica non potrà svolgere alcun ruolo esplorativo e/o propulsivo, né promuovere differenti opzioni. Egli dovrà incaricare nuovamente il Presidente del Consiglio eletto e, in ipotesi di nuovo dissenso, sciogliere le Camere.
3. Il Parlamento perde il crisma del primato istituzionale e della stessa autosufficienza, essendo la sua sopravvivenza legata a quella del Presidente del Consiglio eletto. Ciò che ne certifica la piena subalternità.
Tale costrutto trova un’unica eccezione, seppur limitata. Ciò avviene in base al quarto comma dell’art. 94 novellato, secondo cui: In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.
La norma suppone che il Presidente del Consiglio eletto si sia regolarmente insediato, abbia ottenuto la fiducia del Parlamento e sia successivamente cessato dalla carica. In questo caso, il Capo dello Stato potrà nuovamente officiare il Presidente del Consiglio eletto, oppure ricorrere ad altro Parlamentare, purchè proiettato a realizzare i medesimi orizzonti programmatici del Presidente cessato.
Vi è in questo costrutto una radice di ambiguità.
Intanto, non è chiaro il senso dell’espressione In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto. La cessazione può avvenire per plurimi motivi: dimissioni, revoca della mozione di sfiducia, impedimenti di ordine fisico o di ordine giuridico-istituzionale (ad. Esempio, assunzione di altra carica di vertice, condanna penale con interdizione dai pubblici uffici, etc.). Tuttavia, il seguito della norma sembra smentire la prima parte, circoscrivendo l’ipotesi al solo caso di dimissioni: In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario…
Insomma, la norma è semanticamente contraddittoria, giacchè prima pare alludere ad una casistica di cessazione ampia, poi pare circoscrivere l’eccezione al solo caso di dimissioni.
La scrittura costituzionale non ammette ambiguità, né coni d’ombra. Sul punto, il testo andrà certamente precisato.
Ma vi è un secondo elemento di criticità nel nuovo comma. Vi si dice che il Presidente della Repubblica, in caso di cessazione del Presidente del Consiglio eletto, potrà conferire il nuovo incarico anche a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto. Ciò, tuttavia, al solo scopo di attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia.
Ebbene, la revisione costituzionale non interviene sull’art. 67 della Costituzione, che prevede che Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Ne segue che il Presidente della Repubblica ben potrebbe officiare un Parlamentare, all’origine eletto “in collegamento al Presidente” del Consiglio, successivamente traslato su altro versante politico, ancorchè dichiaratosi incline ad attuare le dichiarazioni di indirizzo e di programma su cui il Governo del Presidente ottenne la fiducia. In altri termini, non vi è certezza che, attraverso questo metodo, trovino soluzione i temi centrali affrontati dalla riforma, che sono quelli della stabilità delle maggioranze, della governabilità del Paese e della solidità delle scelte di campo.
VIII – CONCLUSIONI
Può trarsi qualche conclusione dalla lettura ragionata del d.d.l. di revisione costituzionale.
La prima. La figura del Presidente della Repubblica, con il depotenziamento drastico delle sue funzioni, perde buona parte della sua autorevolezza e primazìa costituzionale. Egli conserva, certamente, molte delle sue prerogative (Capo del Consiglio di difesa, Presidente del C.S.M., nomina di quote rilevanti della Corte Costituzionale, messaggi alle Camere, etc..), ma potrà incidere molto meno sull’andamento istituzionale e politico del Paese. La sua figura viene ampiamente opacizzata da quella del Presidente del Consiglio che, forte di una legittimazione sovrana e diretta, risulterà fatalmente più forte ed autorevole. Con la conseguenza che il “Garante dell’unità nazionale”, supremo custode e controllore delle Istituzioni Repubblicane, dovrà retrocedere al cospetto del potere esecutivo, più densamente officiato.
La seconda. La riforma ha ben presente che il tema della stabilità e della governabilità non dipende dall’impianto costituzionale, ma da quello elettorale. Ed infatti, introduce una disposizione che prevede un premio pari al 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere in favore delle liste e dei candidati collegati al Presidente del Consiglio eletto. Tale impostazione suggerisce, tuttavia, qualche considerazione.
a. La norma assegna un premio di maggioranza, senza indicare una soglia minima di consenso. Fu questo il motivo per il quale la Corte Costituzionale cassò la legge “Porcellum”. Il rischio severo è, in altri termini, che la lista/coalizione vincente, magari con un totale di suffragi minimo, possa ottenere un premio enorme, ingiustificato dal consenso elettorale ed in violazione del principio di rappresentatività invocato ripetutamente dalla Corte Costituzionale.
b. La norma prevede l’attribuzione di un premio, assegnato su base nazionale. Tuttavia, tale modalità stride con le differenze che corrono tra elezione della Camera dei Deputati ed elezione del Senato della Repubblica. Solo per la prima è prevista una modalità di elezione su base nazionale mentre per il Senato è previsto un sistema fondato su base regionale. Trattasi di una contraddizione o di una dimenticanza che rende la novella non sostenibile o, quantomeno, ambigua.
La terza. Era proprio necessario aggiungere una legittimazione sovrana a quelle esistenti per migliorare la governabilità del Paese? Un sistema Costituzionale è un congegno assai delicato, nel quale l’equilibrio si ottiene attraverso una sottile concatenazione di poteri, legittimazioni, controlli, dai quali fare emergere un pensiero politico omogeneo e coerente. I Costituenti del 1948 furono guidati da un pensiero ferreo e scelsero, ancorchè più faticosa, la forma parlamentare, quale strumento per veicolare e controllare l’indirizzo politico, sotto lo sguardo vigile di un organo di garanzia, il Presidente della Repubblica, emanazione a sua volta del Parlamento. Con l’introduzione di una seconda legittimazione sovrana, l’Italia perde il suo connotato di “Repubblica Parlamentare” ed assume quella, del tutto originale, di “Repubblica Presidenziale”, dove l’aggettivo non allude però all’istituzione di garanzia, il Presidente della Repubblica, ma ad uno dei tre poteri separati da Montesquieu, l’Esecutivo. In definitiva, con questa scelta – si ripete, astrattamente possibile e concettualmente legittima – si vira verso una direzione diversa ed a tratti opposta, in cui l’Esecutivo, prima soggetto al controllo istituzionale del Presidente della Repubblica e del Parlamento, diviene, quasi per contrappasso, a sua volta attore ed autore di detto controllo, questo volta rivolto, con grave esposizione di questi ultimi, verso i vecchi controllori.
La quarta. In assenza di un vincolo di mandato, nulla vieta che le maggioranze delineatesi a seguito di elezioni possano mutarsi nel tempo, a prescindere ed anche contro il volere del Presidente del Consiglio eletto. Ebbene, essendo prescritto che la designazione di un nuovo Presidente del Consiglio, in caso di cessazione di quello eletto, debba avvenire per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia, tale rigidità potrebbe impedire la formazione di Esecutivi alternativi e generare scioglimenti del Parlamento a cascata. Il che stride con il senso della Repubblica Parlamentare, che proprio nella capacità di interrogarsi, dialogare e determinarsi entro le mura del Parlamento, trova la sua ragione ed il suo fondamento.
La quinta. La determinazione di sciogliere le Camere, in ipotesi di mancata fiducia al Presidente del Consiglio eletto, vale quale precisa opzione istituzionale e costituzionale: la figura del Presidente eletto, espressione del potere esecutivo, vale più della sopravvivenza dell’intero Parlamento, destinato a sciogliersi in mancanza di fiducia al primo. Altro segno, questo, del primato assicurato al potere esecutivo rispetto a tutti gli altri poteri.
La sesta. La politica è fenomeno non statico ma dinamico. La sua ragione risiede nella capacità di seguire la costellazione dei mutamenti che inglobano e orientano le società complesse. Ebbene, in una condizione di perenne divenire, ha poco senso: a) legare la formazione di un nuovo Governo, in ipotesi di cessazione/dimissione del Presidente del Consiglio eletto, ad un parlamentare che assuma il compito di attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia; b) imporre il ritorno automatico alle urne, in caso di voto di sfiducia al Presidente del Consiglio neoeletto e/o al Parlamentare designato. Trattasi di rigidità che non giovano al Paese e che, soprattutto, svuotano di senso il Parlamento. Inoltre, vi si coglie, plasticamente, l’intento di depotenziare il Presidente della Repubblica, impedito nell’esercizio di una delle sue prerogative più alte e riconosciute, la ricerca di un pensiero e di una soluzione differente. Si preferisce – quasi rieditando l’ammonimento biblico ‘muoia Sansone con tutti i Filistei’ – la commorienza dell’organo esecutivo, del Parlamento e dell’intera legislatura, piuttosto che dar voce alla lettura, storicamente prudente ed avveduta, del Presidente della Repubblica e delle Assise Parlamentari.
In definitiva, più ombre che luci nel processo di revisione promosso dal Governo. E’, certamente, un testo utile, per buoni tratti (al netto delle ambiguità rilevate) ben scritto, elaborato secondo i principi di chiarezza, evidenza e coerenza ormai invalsi, sia nella stesura normativa che in quella giudiziaria. Da esso potrà dunque muoversi, in direzione di soluzioni più aderenti all’equilibrio costituzionale in essere e, soprattutto, più prossime alle criticità rilevate.
Rimango convinto che gran parte delle questioni di instabilità sollevate abbiano matrice nelle leggi elettorali. In questo senso, va colto come un elemento positivo il fatto che la riforma abbia inteso introdurre in Costituzione, per la prima volta, un criterio elettorale con scopo premiale. A condizione, tuttavia, che vengano recepiti i suggerimenti della Corte Costituzionale, con la previsione di una soglia minima di consenso, coerente con il principio di rappresentatività ed un ritorno ragionato alle preferenze, sì che il Parlamento finisca di essere organo di nominati, ma tempio di eletti.
[1] Donatella Morana, “La fase Costituente: Alle origini dell’art. 138 Costituzione”. STUDI POLACCO-ITALIANI DI TORUŃ XVII – Toruń 2021, pag. 143.
[2] Charles-Louis de Secondat, detto Montesquieu, ‘De l’esprit de lois’, 1748.