Le reazioni poco composte di alcuni settori parlamentari e governativi rispetto al pronunciamento delle Sezioni Unite sul caso Diciotti lasciano, ancora una volta, allibiti. Quasi fossero partecipi di uno Stato senza Diritto, molti protagonisti, chiamando al complotto politico, si sono scagliati contro un’ordinanza che, al contrario, è rigorosamente ragionata e la cui utilità travalica, come si vedrà, il tema questionato.
Il caso è quello della nave della guardia costiera italiana Ugo Diciotti che, recuperati dei naufraghi nel Mediterraneo, li trattiene a bordo per ben dieci giorni nelle infuocate giornate del mese di agosto 2018, prima in rada, per sei giorni, di fronte alle coste catanesi, quindi all’interno del porto, ma con divieto di sbarco, per quattro giorni.
Fu un atto politico, dunque insindacabile? Fu un atto amministrativo, dunque sindacabile e foriero di responsabilità civile e risarcimento danni, come ha insegnato l’ormai risalente, ma sempre attuale, sentenza n. 500/1999 della Suprema Corte di Cassazione?
Il Tribunale di Roma, in primo grado, dispose che l’azione dell’apparato ministeriale del tempo fosse atto politico, dunque non sindacabile dal giudice ordinario.
Occorre ricordare che la questione ebbe anche una risonanza penale, essendo giunta, ai sensi della legge costituzionale n. 1/1989, al vaglio del Tribunale dei Ministri di Catania che, tuttavia, dovette prontamente archiviare a seguito del diniego di autorizzazione a procedere da parte del Senato.
La Corte di appello di Roma ribaltò, sul piano concettuale, la sentenza del Tribunale ed asserì che il trattenimento di migranti a bordo della Diciotti non fu un atto politico, ma un atto amministrativo, come tale sindacabile, sia quanto alla sua legittimità, sia quanto alla sua illiceità civile. Nel merito, tuttavia, ritenne l’azione del Ministro immune da responsabilità e colpe, anche alla luce della complessità della materia e delle contese che, sul piano internazionale, erano in atto circa la ripartizione delle competenze nella asseverazione dei porti di approdo e delle correlate condizioni di sicurezza e garanzia per i diritti umani.
Avverso detta sentenza sono nuovamente insorti i migranti innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che, considerata la rilevanza dei temi, ha inteso decidere a sezioni unite.
Qui si impone una prima riflessione. Che valore ha una decisione a Sezioni Unite? Estremo, giacchè ad essa si demandano, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., le questioni più controverse o impegnative, allo scopo di fissare un criterio univoco e privo di ambiguità. Dunque, la decisione in commento ha, sul piano giuridico, una caratura speciale, che impone un approccio né sommario, né assiomatico.
Cosa hanno deciso le Sezioni Unite? Molte cose.
In primis, hanno confermato la sottoposizione della vicenda alla giurisdizione e confermato che l’atto di soccorso e trattenimento di migranti in stato di pericolo è un atto amministrativo e non politico e, pertanto, non gode delle speciali immunità previste a tale scopo. Riferisce l’ordinanza della Cassazione che «… va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale …Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo. Non vi è dunque difetto assoluto di giurisdizione …».
Del resto, la stessa Suprema Corte offre un elemento di giudizio più profondo ed asserisce che “La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità”.
Conseguenza di tale approccio è che l’azione ministeriale, ancorchè correlata ad un indirizzo di governo, non sfugge alla sua dimensione amministrativa ed al conseguente dovere di connettersi a tutti i valori di suo riferimento, tra cui il dovere di imparzialità, buon andamento, tutela dei diritti. Nel dettaglio, essa è chiamata a conformarsi all’intera normativa internazionale e nazionale, nonché ai principi che regolano la responsabilità civile, primi tra tutti quelli che alludono alla dolosità o colposità dell’agire.
Sul punto, l’ordinanza della Cassazione ha annotato che «… Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. E tra tali vincoli rilievo primario ha certamente il rispetto e la salvaguardia dei diritti inviolabili della persona. L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati».
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A questo punto, le Sezioni Unite offrono una ricostruzione sistematica del quadro di riferimento normativo, dilatando lo sguardo alla dimensione internazionale. Riferiscono, in questa ottica, che «l’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità; come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Non solo, ma posta la matrice consuetudinaria dell’obbligo di soccorso in mare, provvedono alla sua attualizzazione, attraverso lo scrutinio del diritto internazionale positivo, cui l’Italia ha aderito attraverso specifici atti di ratifica e recepimento. Il che è punto dirimente, giacchè, ai sensi degli artt. 11 e 117 della Costituzione, lo Stato Italiano è chiamato ad un dovere di interazione e conformazione internazionale, cui assegnare, addirittura, il crisma della primazìa.
Sul tema, la Cassazione ricorda che le “Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell’autorità politica, poiché assumono, in base al principio “pacta sunt servanda”, un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna”. In altri termini, l’ordinamento giuridico italiano non è più solo frutto di un processo produttivo interno, ma si avvale, con radici e matrici primarie, anche delle fonti internazionali, secondo le visioni anticipate, profeticamente, dalla nostra Costituzione.
A questo punto, la Corte passa a scandagliare la questione ed osserva che “tale obbligo trova una più dettagliata enunciazione, con riguardo alla specifica attività di soccorso in mare, nella Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea, del 1974 …), nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (c.d. Convenzione SAR, acronimo per Search And Rescue, anche nota come Convenzione di Amburgo, ratificata dall’Italia con legge 3 aprile 1989, n. 147 …) , nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo per United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689)».
Il tema, dunque, non è solo il momento del soccorso in mare, ma anche quello degli esiti del soccorso. Che fare dei migranti salvati? Dove portarli? A chi consegnarli? La Cassazione annota che «lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» (Convenzione SAR, capitolo 3.1.9), fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; … per “luogo sicuro” si intende un “luogo” in cui sia garantita non solo la “sicurezza” – intesa come protezione fisica – delle persone soccorse in mare, ma anche il pieno esercizio dei loro diritti fondamentali, tra i quali, ad esempio, il diritto dei rifugiati di chiedere asilo …”.
Dunque, il soccorso non va disgiunto dalla sua conseguenza e, quindi, dall’obbligo di provvedere e garantire la dignità, la sicurezza e la libertà delle persone soccorse e, in funzione di ciò, uno sbarco in porto sicuro “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. Annota la Cassazione che “…in capo agli Stati residua, infatti, un margine di “discrezionalità tecnica” solo ai fini dell’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché in considerazione della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate …”.
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A questo punto, le Sezioni Unite passano a ricostruire il caso concreto e fissarne il punto di legittimità. In questa ottica annotano che “… le operazioni di soccorso erano state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana, la quale era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, «nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Il tema, dunque, è valutare se il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti integri, oppure no, un’arbitraria violazione dei diritti umani e della libertà personale. Non solo, ma nel tentativo di fugare ogni dubbio circa la possibile responsabilità degli apparati italiani, estendono lo sguardo ad ulteriori disposizioni internazionali, segnatamente la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), con riferimento all’eventualità che lo status di migranti clandestini possa legittimare l’esclusione o il ritardo sia dello sbarco, sia dell’individuazione di un porto sicuro, sia dei diritti fondamentali della persona. Sul punto, la Suprema Corte annota che “Rilievo particolare assume al riguardo l’art. 5 par. 1 lett. f) CEDU il quale ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione”.
Posto quanto sopra, la Corte chiarisce che “va escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell’ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione. Non solo, ma esclude che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio”. A tale scopo, le Sezioni Unite richiamano alcuni precedenti giurisprudenziali, annotando che “Una tale interpretazione della norma convenzionale è stata chiaramente respinta dalla Corte EDU nella sentenza Khlaifia and Others v. Italy, relativa ad un caso – per alcuni aspetti analogo a quello in esame – di trattenimento di migranti tunisini a bordo di navi, ormeggiate nel porto di Palermo, per effetto di un atto dell’Esecutivo».
In definitiva, secondo la Corte, nel caso Diciotti emergono le condizioni per investigare una eventuale responsabilità risarcitoria dello Stato Italiano. Ciò, evidentemente, attraverso un doppio vaglio: a) l’illegittimità dei provvedimenti amministrativi di trattenimento e di divieto di sbarco; b) lo scrutinio dell’elemento soggettivo (colpa o dolo), indispensabile per asserire una responsabilità risarcitoria.
Osserva la Corte che, «perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana”. La conclusione della Corte è condensata nella seguente proposizione: “Le considerazioni sopra svolte restituiscono un quadro giuridico di tale chiarezza e cogenza da rendere insostenibile l’assunto della insussistenza di elementi sufficienti per affermare la colpa delle amministrazioni resistenti”.
Dopo di che, la Corte pone un ulteriore paletto, stabilendo che la responsabilità risarcitoria non va riferita al singolo agente, ma allo Stato Apparato, quale organizzazione espressiva di interessi generali. Annota infatti, a proposito dell’elemento soggettivo, che “La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla p.a. come apparato, e sarà configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa””.
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In definitiva, osservato il quadro normativo di riferimento, l’insussistenza di elementi di ambiguità interpretativa e funzionale, l’oggettivo ritardo delle azioni di sbarco, la Corte ha ritenuto ampiamente violate le disposizioni vigenti e, dunque, ravvisate le condizioni soggettive della responsabilità colposa. Ha così annullato la sentenza impugnata, provvedendo tuttavia ad ordinare il rinvio alla stessa Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, allo scopo di valutare la sussistenza delle lesioni e delle relative prove, con conseguente vincolo, in caso affermativo, di liquidazione del risarcimento.
Al proposito, la Suprema Corte ha fornito una chiave di lettura specifica, annotando che, trattandosi di danno non patrimoniale, per definizione interiorizzato ed invisibile, esso potrà essere acclarato non solo attraverso misure probatorie attive, ma anche ricorrendo ad elementi presuntivi. In particolare, “in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato”.
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Dunque, si è al cospetto di un pronunciamento complesso, per un verso risolutivo di questioni di valore assoluto, per altro verso ancora aperto quanto all’accertamento delle lesioni e della quantificazione risarcitoria. In questo senso, ampiamente decontestualizzati appaiono i diffusi peana complottistici che hanno accompagnato la pubblicazione dell’ordinanza. Da chi ci governa e legifera ci attenderemmo, francamente, reazioni più informate e, a seguire, un più elevato galateo istituzionale, cui premessa irriducibile è il rispetto delle istituzioni costituzionalmente separate, prima tra tutte la Magistratura, soprattutto quando impegnata ad operare, attraverso il suo supremo organo, a Sezioni Unite.
