Mansioni superiori e superiore retribuzione

Questioni di applicazione della sentenza che le riconosce

PREMESSA CONCETTUALE

E’ assai frequente che i giudizi di lavoro, finalizzati al riconoscimento, a fini retributivi, di mansioni superiori, vadano incontro a difficoltà applicative in sede di esecuzione della sentenza di accoglimento.

Il tema si pone allorchè questa si limiti ad una soluzione sull’an, ma non precisi il quomodo, ovvero i parametri di calcolo per il computo delle differenze retributive spettanti, sia arretrate che ad effetto ex nunc. In tali circostanze il Giudice, fidando sul fatto che le retribuzioni si costruiscono su fondamenta negoziali e giuridiche certe, demandano al datore di lavoro, spesso una Amministrazione Pubblica, di conteggiare le somme differenziali, limitandosi a generici richiami ai livelli/categorie di riferimento.

E’ in questa fase che si insidia il pericolo per il lavoratore e, per l’avvocato, la difficoltà di fornire una giusta soluzione all’assistito. E’ del tutto evidente, difatti, che il datore di lavoro, per comprensibili ragioni di contenimento della spesa e fidando nella vaghezza della statuizione, utilizzi una metodo di calcolo compressivo, che preveda quale sottraendo il trattamento ‘iniziale’ del livello superiore e quale minuendo il trattamento già in godimento. La conseguenza è che, con tale modalità: a) si azzerano le progressioni stipendiali orizzontali, premio dal lavoratore conseguito nel tempo, grazie alla sua qualità ed alla sua anzianità di servizio; b) si azzera l’anzianità lavorativa dello stesso, regredendolo allo stato di prima assunzione; c) si generano le condizioni per un minimizzazione dell’impatto economico della sentenza.

In definitiva, una sentenza chiamata a riconoscere lo scorrere al rialzo del cammino lavorativo, si trasforma in insidioso strumento di regressione ed azzeramento dello stesso. Con la conseguenza che non è raro che il lavoratore, dopo anni di battaglie giudiziarie e frustrato dagli esiti apparenti, decida di rinunciare a far valere i suoi interessi.

II.IL SENSO E L’UTILITA’ DEL PROCESSO

In tutto questo occorre scrutinare il senso del processo e della sua idoneità a mutare il quadro degli interessi coinvolti ed in conflitto.

Ebbene, il processo non è un astratto esercizio di bravura o di torsioni dialettiche interpretative. Esso è, piuttosto, lo strumento per risolvere problemi reali, sulla base di una prognosi di utilità ed evidenza dell’interesse scrutinato ed assume a suo traguardo quello di mutare o stabilizzare il quadro dei diritti e\o delle aspettative in gioco.

Si ricorda che, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse. Così che, se il Giudice, nell’esercizio delle sue prerogative, ritenga di accogliere una domanda, lo fa non solo perché la ritenga fondata, ma anche perché dalla stessa possa generarsi un’utilità, concreta ed attuale, per il procedente. E’ del tutto evidente che tale utilità costituisce un parametro non astratto, ma va misurata con riferimento al senso ed alle implicazioni della decisione. Questa, in altri termini, non può essere né contraddittoria, né paradossale, né meramente assertiva. Se adesiva alla domanda ed al suo petitum, in essa devono rinvenirsi, in concreto, i germi del vantaggio per la parte vincitrice. Di certo, non sarebbe ammissibile che, all’interno di una statuizione di accoglimento, possano annidarsi i semi della contrazione e/o immutazione del diritto preteso e giudizialmente asserito.

III DIVIETO DI RIFORMA PEGGIORATIVA DEL TRATTAMENTO ECONOMICO

A

Il divieto di ‘reformatio in pejus’ dei trattamenti stipendiali in godimento costituisce un approdo sicuro del nostro sistema, che attraversa tutti gli ambiti e le materie possibili.

Uno dei parametri normativi significativi, attraverso cui accompagnare tale principio, è dato dall’art. 8 comma 5 c.c.n.l. integrativo 14.9.2000 comparto sanità, che, testualmente, recita: il dipendente assegnato alle mansioni superiori ha diritto alla differenza tra il trattamento economico iniziale previsto per l’assunzione nel profilo rivestito e quello iniziale corrispondente alle mansioni superiori di temporanea assegnazione, fermo rimanendo la posizione economica di appartenenza e quanto percepito a titolo di retribuzione individuale di anzianità.

Il riferimento, in realtà, è utilizzabile in tutti i settori di interesse ed implica che al dipendente spetta, in ipotesi di conferimento di mansioni superiori, la somma tra: a) la maggior somma calcolata sul differenziale retributivo di base risultante tra le due categorie in confronto, quella di provenienza e quella di destinazione; b) il mantenimento della maggiore posizione economica acquisita al momento del passaggio.

In definitiva, ad evitare esiti distorsivi, la norma ha previsto che il calcolo differenziale si faccia sui trattamenti iniziali di entrambi gli elementi e non già, come spesso ricorre nelle applicazioni fornite dai datori di lavoro, su quello iniziale di approdo e quello di anzianità in godimento, con l’aggiunta del trattamento progressivo orizzontale già in godimento.

Tale impostazione, del resto, trova sponde nella complessità e nella ratio del sistema normativo, coralmente finalizzato a dare attualità e concretezza ai diritti lavoristici ed a considerarli, con l’art. 36 della Costituzione, che predica l’obbligo di corrispondere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro reso, fattore primario del sistema giuridico e, dunque, non disponibili né contendibili in senso restrittivo.

B

La legislazione civilistica

L’art. 2104 c.c. specifica, in via generale, che Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi…Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo

Sotto altro aspetto, è precisato che, nemmeno in ipotesi di trasferimento di azienda, è dato determinare il deterioramento dei diritti acquisiti: In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano (art. 2112 c.c.).

Del resto, l’ordinamento civilistico precisa, a significarne il valore imperativo ed inderogabile, che al lavoratore non sono infliggibili, sotto pena di nullità, cessioni di diritti e titoli in materia lavoristica, nemmeno se ex se volute: Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide (art. 2113 c.c.).

Nel medesimo solco, l’art. 2126 c.c. ha statuito, con norma parimenti imperativa, che il lavoro prestato, ancorchè in condizioni di irregolarità, va considerato validamente erogato ed omologamente retribuito.

B

La legislazione pubblicistica

La questione trova luce anche in ambito pubblicistico. Essa lambisce, invero, il tema della parità di trattamento (art. 3 Cost.) e quella, più specifica, del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost., art. 1 l. 241/90).

L’art. 45 dlgs 165/01 pone, in via generale, il principio per cui Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi, nel solco dei principi costituzionali (artt. 35 e 36), secondo cui il lavoro va tutelato “in tutte le sue forme ed applicazioni” ed in modo da garantire, con presidio di irrinunciabilità, una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della prestazione resa.

La disposizione è rafforzata dall’art. 30 bis dlgs 165/2001 che, a proposito di mobilità orizzontale, stabilisce che …Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell’area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza….

Ed ancora, il successivo art. 31 pone una simmetrica con il mondo civilistico, affermando che “nel caso di trasferimento o conferimento di attività svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici…..ad altri soggetti pubblici e privati al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’art. 2112 c.c….”.

Il dato, peraltro, si salda ad una risalente e consolidata tutela prevista dall’art. 3 comma 57 l. 537/93, secondo cui, in ipotesi di passaggio di carriera di cui all’articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione. La norma valeva quale strumento di protezione dei diritti economici maturati, ad evitare che il salto in avanti potesse risolversi in un salto nel buio.

Si ricorda, peraltro, che la legge 27.12.2013 n. 147, nell’abrogare la norma (già trasfusa nel citato art. 30 bis dlgs 165/2001), ha tuttavia confermato che il lavoratore ha comunque diritto ad un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità.

Si ricorda ancora, allo scopo di storicizzare il tema, che anche nel comparto scuola si erano registrati criteri simili da tempo risalente. L’art. 6 dpr 345/1983 aveva infatti statuito che, Nei casi di passaggio a qualifica funzionale o a livello retributivo superiori, al personale interessato, ivi compreso quello nominato nel nuovo ruolo successivamente al 1° febbraio 1981, è attribuito lo stipendio iniziale previsto per la nuova qualifica o il nuovo livello, maggiorato dell’importo risultante dalla differenza tra lo stipendio maturato per classi o aumenti biennali nella qualifica o livello di provenienza ed il relativo stipendio iniziale.

Infine, in tema di divieto di reformatio in pejus, si ricorda il C.C.N.L. comparto enti locali del 31 marzo 1999 che, all’art. 15 comma 3, così recita: “Al personale proveniente per processi di mobilità da altri enti del comparto resta attribuita la posizione economica conseguita nell’amministrazione di provenienza.

In definitiva, l’intero sistema è orientato a dare valore ad un modello tutorio dei diritti retributivi quesiti, non passibile dunque di restrizioni e\o cessioni. Tanto più in sede di applicazione di una sentenza assertiva di tali diritti.

IV L’INTERPRETAZIONE DELLA GIURISPRUDENZA

A

La questione è stata cristallizzata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, con formule ed orientamenti ormai consolidati.

La Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro (sentenza n.13579/2016), in sintonia alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, ha in via definitiva fissato il criterio dell’integrale applicazione, anche al pubblico impiego, dell’art. 36 della Carta Costituzionale e, dunque, del principio di retribuzione integrale, proporzionata e qualitativamente sufficiente. In particolare, la Suprema Corte ha avuto modo di osservare che, in materia di mansioni superiori, va data continuità ai principi desumibili dalla sentenza delle Sezioni unite civili di questa Corte, n. 25837 del 11/12/2007, secondo cui in materia di pubblico impiego contrattualizzato l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.

Del resto, sul punto si è registrata l’unisona interpretazione della Corte Costituzionale, che ha richiamato il valore primario e non ritraibile del diritto alla piena retribuzione, in presenza di mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost. ord. 26 luglio 1988 n. 908; Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236; Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296) e fissato un criterio di necessario e reale avanzamento dei valori economico-retributivi spettanti.

Peraltro, la stessa sentenza della Suprema Corte n. 13579/2016 ha ammonito che il titolo retributivo in questione valica i limiti del mero diritto di credito, per consegnarsi alla dimensione del diritto assoluto della persona. Il passaggio della sentenza merita di essere integralmente riportato: L’estensione della norma costituzionale all’impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001, il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione non priva di vincoli unilateralmente opposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost.. Principio questo che per poggiare sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo – qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia – da un lato ha portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare, sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della sufficienza e della proporzionalità ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

Dunque, nel credito lavoristico, si annidano non solo questioni patrimoniali e di corrispettività negoziale, ma anche temi che attengono alla persona umana, alla sua dignità, al suo diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, come per l’appunto predica l’art. 36 della Costituzione. Il che rende ancora meno contendibile il diritto retributivo e più intenso il dovere di una interpretazione espansiva.

Peraltro, sulla questione del mantenimento dei trattamenti precedenti, la Suprema Corte di Cassazione (Sez. Lavoro, Sentenza 5 ottobre 2016, n. 19925) ha avuto modo di ulteriormente asserire che, in tema di passaggio di personale da un’amministrazione all’altra, il mantenimento del trattamento economico collegato al complessivo “status” posseduto dal dipendente prima del trasferimento opera nell’ambito, e nei limiti, della regola del riassorbimento in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti dalle normative applicabili per effetto del trasferimento, dovendosi contemperare, in assenza di una specifica previsione normativa, il principio di irriducibilità della retribuzione, con quello di parità di trattamento dei dipendenti pubblici stabilito dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 45 (Cass., n. 24950 del 2014)…

Da ultimo, con ordinanza n. 4545 del 2016, in tema di lavoro pubblico, la Suprema Corte ha statuito che nel caso di passaggio di lavoratori da un’amministrazione ad altra, ovvero nell’ipotesi di mutamento di posizione all’interno della stessa amministrazione con assegnazione a settori diversi da quelli di provenienza, deve essere assicurata la continuità giuridica del rapporto e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l’ente o il settore di destinazione, opera secondo la regola del riassorbimento degli assegni “ad personam” attribuiti al fine di rispettare il divieto di “reformatio in pejus” del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti a seguito del trasferimento. “A fortiori”, come è evidente, il principio deve valere allorchè il transito operi nell’ambito della medesima Amministrazione Pubblica ed in senso verticale.

Infine, mette conto richiamare una decisione di merito del Il Tribunale di Napoli Nord che, con sentenza n. 294/2016, ha avuto modo di validare ulteriormente tale impostazione ed asserire, a proposito di una fattispecie che prevedeva il passaggio del personale infermieristico attivo presso le strutture penitenziarie dalla gestione ministeriale a quella del servizio sanitario nazionale, che il riconoscimento del maturato economico nel biennio 2006/2007 è uno strumento per garantire lo sviluppo economico goduto presso l’amministrazione di partenza…per cui l’azienda convenuta avrebbe dovuto tenere conto dell’anzianità maturata alla data del sub ingresso nel contratto di lavoro; ma tale imprescindibile operazione giuridico contrattuale non è stata eseguita, per cui, fermo restando l’inquadramento della categoria D…deve essere riconosciuta l’anzianità…con il conseguente inquadramento di essa nella fascia economica D6 e non D0, con la condanna dell’Amministrazione convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate e non corrisposte.

Sulle precorse questioni, la giurisprudenza ha avuto modo di fornire ulteriori arresti.

Sul tema della non contendibilità e rinunciabilità dei trattamenti retributivi è stato asserito che «Il principio dell’irriducibilità della retribuzione, dettato dall’art. 2103 c.c., implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro ed ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto…» (Cass. 27 ottobre 2003, n. 16106 Sez. Lavoro. V. anche Cass. Sez. lav. 3.2.2015 n. 1914; Trib. Bari, lav., 26.11.2013).

Parallelamente, il Consiglio di Stato (Sentenza n.141/2001- sezione VI) ha statuito che, in occasione di passaggi di dipendenti da una amministrazione ad un’altra, occorre procedere al raffronto fra le due retribuzioni. Ed invero, se è possibile prevedere una modifica pattizia dell’orario di lavoro, non è possibile stabilire una retribuzione inferiore, rispetto a quella ordinariamente conseguita con l’anzianità di servizio. Anche in quest’ultimo caso, ogni patto contrario è nullo e comporta un danno risarcibile in via equitativa.

Tale decisione, con specifico riguardo all’inquadramento economico, richiama l’applicazione dell’art. 5, comma II, del D.P.C.M. 5.8.88 n. 325, in base al quale il dipendente trasferito “conserva, ove più favorevole, il trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento…”.a”.

B

La chiarezza dell’impianto interno trova corrispondenza in quello comunitario. La Grande Sezione della Corte di Giustizia della Comunità Europea, con Sentenza 108/10 del 6/9/2011, ha affermato che i lavoratori non possono subire un peggioramento delle condizioni retributive a causa del loro trasferimento da un’amministrazione all’altra o per qualunque motivo legato alla condizione di lavoro.

Tale pronuncia ha interpretato la Direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, sez. 2 art. 3, relativa al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri che regolano e dispongono circa il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, stabilimenti o parti di stabilimenti. In definitiva, la Corte statuisce che il diritto dell’Unione Europea osta a che i lavoratori subiscano un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità lavorativa maturata.

Medesima impostazione ha dato la seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (affare Agrati ed altri C. Italia, con sentenza 7.6.2011 Ricorsi nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09), che, a proposito di una specifica disposizione compressiva dei diritti retributivi adottata dallo Stato Italiano, ha affermato la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nonché la violazione dell’art. 1 protocollo 1 della Convenzione a mente del quale “1. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Si ricorda, inoltre, che l’art. 6 CEDU stabilisce il diritto della parte ad un giusto processo, idoneo cioè a caratterizzare con equilibrio, imparzialità ed efficacia, gli interessi in gioco: 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.

V

L’univoco orientamento nazionale e comunitario a proposito di mantenimento delle posizioni economiche in ipotesi di passaggio a mansioni superiori o trasferimento di azienda, ha trovato preciso riscontro, in tema di modalità di calcolo delle maggiorazioni spettanti in tema di mansioni superiori, nell’interpretazione dell’ARAN (Agenzia Per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni).

Il nodo della questione è che le progressioni economiche orizzontali conseguite dal lavoratore sono frutto non di una meccanica evoluzione raccordata all’età, ma di combinazioni selettive da concordarsi con le parti sociale e misurarsi con riferimento all’entità delle risorse disponibili. Ciò implica che, non essendo liquido il titolo alla progressione orizzontale, viene impedito all’interprete di assumere, ex post, come certa e dovuta la progressione economica nella categoria superiore.

Per intendere, se al momento della sentenza di riconoscimento di mansioni superiori in categoria C, il lavoratore, inquadrato in categoria B, gode della progressione B4, non è certo che debba attribuirsi la corrispondente progressione C4.

Tuttavia, come precisato, i trattamenti in godimento non possono essere né azzerati, né decurtati, pena l’illiceità della relativa misura. Ecco che, allo scopo di evitare derive distorsive, si sono poste tre modalità di calcolo.

Con la prima, si tende a calcolare la differenza spettante facendo la differenza tra trattamento iniziale nella categoria di destinazione e trattamento iniziale nella categoria di provenienza, aggiungendovi il maturato in termini di progressione economica acquisita. Per tornare all’esempio, al lavoratore già in categoria B4 spetteranno la differenza tra trattamento iniziale in categoria B e trattamento iniziale in categoria C + il maturato in progressione economica orizzontale, ovvero la differenza tra trattamento iniziale in categoria B ed il trattamento progressivo in categoria B4.

Con il secondo, si tende a calcolare la sola differenza tra trattamento iniziale in categoria B e trattamento iniziale in categoria C, aggiungendovi, attraverso un riconoscimento figurativo, la progressione spettante in categoria superiore.

Con il terzo, più restrittivo, si si tende a calcolare la sola differenza tra trattamento iniziale in categoria di provenienza e trattamento iniziale in categoria di destinazione.

In ogni caso, occorrerà utilizzare un criterio idoneo a dare senso alla sentenza e, pertanto, migliorare significativamente il trattamento in godimento. In questo senso, non sarà concesso partire dal trattamento iniziale superiore e sottrarre il trattamento progressivo in godimento. Calcolo, questo, che rischierebbe, seriamente, di compromettere il diritto preteso e generarne la drastica contrazione e/ azzeramento.

L’ARAN ha avuto modo di stigmatizzare, ovviamente con riferimento al pubblico impiego, il punto e stabilito, con decisione (RAL) n. 126 del 6.6.2011 che Ai fini delle mansioni superiori non ha alcun rilievo la posizione economica acquisita dal lavoratore per effetto della progressione economica all’interno della categoria ai sensi dell’art. 5 del CCNL del 31.3.1999, come pure non ha alcun rilievo la posizione economica del lavoratore assente nella categoria superiore. Ciò che rileva, infatti, è il trattamento economico iniziale del profilo professionale inferiore rispetto al trattamento economico iniziale del profilo professionale di categoria superiore. Dunque, il calcolo va operato, fondamentalmente, sui dui trattamenti iniziali, superiore ed inferiore.

La stessa Agenzia ha altresì precisato che, Trattandosi di una differenza tra due valori stipendiali, determinata ai sensi dell’art. 52, comma 2, lett. a) del CCNL del 14/9/2000, il relativo importo (ai sensi dell’art. 13 del CCNL del 5/10/2001), incide anche nel calcolo della tredicesima mensilità (RAL n. 1793 del 7.10.2015).

Infine, ha manifestato la sua inclinazione verso la soluzione più ampia e stabilito che se, ad esempio, il dipendente è inquadrato nella categoria C, posizione economica C5, il compenso pari alla differenza tra il trattamento stipendiale iniziale della categoria C, corrispondente alla posizione economica C1, e quello iniziale della categoria D, corrispondente alla posizione economica D1, si aggiungerà al trattamento economico stipendiale corrispondente alla posizioneAran economica C5.( RAL N. 1793 del 7.10.2015) Il che equivale a confermare il principio secondo cui, alle differenze stipendiali iniziali, vanno sommate quelle maturate per progressione retributiva orizzontale nella categoria ‘a qua’.

Ma v’è un ulteriore dettaglio scrutinato dall’’ARAN, finalizzato ad intensificare il processo tutorio del lavoratore. Si è prevista la possibilità di agganciare la progressione economica di provenienza a quella di destinazione, annotando un ancoraggio simmetrico tra posizione in godimento nella categoria di provenienza ed omologa posizione nella categoria superiore: ad un dipendente inquadrato in profili della categoria C, possono essere affidate anche mansioni superiori relative a profili della categoria D3 (RAL 1740/2021. RAL 1844 del 24.5.2016). Il che implica che potranno legittimamente scrutinarsi anche progressioni orizzontali non iniziali, ove risultino dimostrati l’anzianità di servizio ed il tasso di esperienza espresso in ambito lavorativo.

CONCLUSIONI

Non v’è dubbio che il riconoscimento giudiziale di maggiori retribuzioni in dipendenza di mansioni superiori debba avere carattere di effettività ed evidenza e non risolversi, attraverso artifici contabili, in un ‘tamquam non esset’.

Sarà onere del datore di lavoro dare esito alla declaratoria giudiziale, evitando modalità di calcolo compressive, ma utilizzando criteri omogenei e coerenti al sistema costituzionale, comunitario, normativo e regolamentare.

Occorrerà dunque, in primis, riconoscere le differenze tra le posizioni iniziali di partenza e di arrivo, addizionate con la progressione orizzontale già in godimento che, pertanto, andrebbe ad implementare i trattamenti non solo per gli arretrati, ma anche per il futuro.

In alternativa, ad evitare scivoli verso il basso, dovrà comunque assicurarsi un ancoraggio con la posizione economica tendenzialmente omologa e simmetrica a quella già in godimento nella categoria di provenienza (Es. da C4 A D4). Ciò sia ai fini del calcolo degli arretrati, che per il futuro.

In ultima analisi, e residualmente, dovrà comunque dar luogo ad un calcolo che, muovendo dal trattamento iniziale della categoria superiore, assuma quale minuendo, quello iniziale della categoria inferiore. Ciò che assicurerà, comunque, un profilo di effettività, efficienza ed utilità alla sentenza.

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