Dante, il suo tempo, i suoi processi

Con il peso di ben due condanne a morte, gli ultimi venti anni della vita di Dante si tramutarono in tragedia. Fuggì di città in città, di famiglia in famiglia, di corte in corte, provando ogni volta a disegnare, implacabilmente solo, un nuovo inizio, un nuovo fine. Dante vittima del potere politico, ma anche della storia.

Occuparsi di Dante, dal punto di vista della sua sublime estetica e del suo inarrivabile mondo poetico, è esercizio che è bene lasciare a chi, per professione o vocazione, vi si dedica con continuità.

Un punto di vista altro, invece, è quello di fare il punto dei contesti storico-giuridici che furono a latere della vicenda del Sommo Poeta e, soprattutto, dei processi che ne implicarono l’esilio dalla Patria e dalla sua stessa vita. Risuonano ancora le parole della Commedia, dove l’avo Cacciaguida, dando voce ai sentimenti di Dante, profetizza: Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale (Paradiso, XVII).

Vi è, invero, un punto spesso sottostimato nella vicenda di Dante e cioè la gravità delle incolpazioni e, di più, delle condanne inflitte. Tali elementi, spesso sorvolati o meramente enunciati, sono invece cruciali per intendere la vicenda del Poeta e spiegare il dolore, il risentimento, le invettive, gli anatemi che egli riservò ai suoi coevi, a Firenze, al Papa, al potere ed alle categorie che vi erano asservite.

Una prima domanda è decisiva: perché tanto “scrupolo” di Firenze verso il suo figlio migliore? Si trattò di giusto esercizio di un potere punitivo o, piuttosto, di una persecuzione politica?

In un tempo lacerato da severe ed inconciliabili contrapposizioni, da un lato i mentori del Papa (Guelfi Bianchi), dall’altro i mentori dell’imperatore del Sacro Romano Impero (Ghibellini e Guelfi Neri), Dante, avendo già iniziato la sua storia di poeta e letterato (‘Vita nova’), decide di intraprendere quella di politico. I tempi avevano dato visibilità a certa nuova borghesia economica, legittimata dalle c.d. ‘arti’. Così, nel 1293, si iscrive all’arte dei Medici e Speziali e già nel 1295 viene nominato nel Consiglio del Popolo. Nel 1296 è nel gruppo di Savi, chiamati a rinnovare le norme per l’elezione dei Priori, massimi rappresentanti di ciascuna arte. Nello stesso anno trova posto nel Consiglio dei Cento. Nel 1300, infine, viene eletto Priore, in rappresentanza della sua ‘arte’. Nella percezione sociale, insomma, il Dante politico prevale sul Dante poeta.

E’ un ufficio breve quello di Priore, dal 15 giugno al 15 agosto, ma intenso e fortemente divisivo. In quel breve volgere, Dante trova modo di osteggiare le ingerenze di Papa Bonifacio VIII negli affari di Firenze, di esiliare 8 esponenti dei Guelfi neri, di disporre, addirittura, l’esilio di 7 dei suoi guelfi bianchi, compreso l’amico e poeta Guido Cavalcanti, che ne morirà dopo pochi mesi. In un batter di ciglia, insomma, riesce ad inimicarsi l’intera società politica ed economica fiorentina ed a farlo nel nome di un’indipendenza ideale, politica e morale della sua Firenze, che pochi tuttavia intendevano.

La reazione della città non si fa attendere. A settembre i nuovi Priori revocano le misure ordinate da Dante e dagli altri Priori e cedono alle mire del Papa su Firenze, come dimostra l’invio di un legato pontificio, Carlo de Valois e la nomina, da parte di questi, nel 1301, del nuovo Podestà, Cante Gabrielli da Gubbio, di fede Guelfa Nera. E’ l’inizio della fine per il Sommo Poeta. Dante viene inviato, forse per distoglierlo definitivamente da Firenze, in Vaticano, allo scopo di negoziare una più solida autonomia della città. E, mentre il Poeta è a Roma, nei primi giorni del 1302 viene aperto un processo nei suoi confronti e di tre Priori di parte guelfa bianca. Secondo gli statuti fiorentini del tempo, la citazione dell’imputato avveniva per pubblica banditura, con l’avvertenza che, in ipotesi di mancata comparizione o contumacia, l’assenza sarebbe stata intesa come piena confessione. In definitiva, Dante non potrà o vorrà partecipare a quel processo, sì che il Podestà, lo stesso Cante Gabrielli da Gubbio, lo dichiarerà, il 27 gennaio 1302, reo confesso, condannandolo all’esilio per anni due, al pagamento di una sanzione di 5.000 fiorini nel termine di tre giorni e, in ipotesi di mancata ottemperanza, alla espropriazione e distruzione di tutti i beni, con interdizione da ogni pubblico ufficio, anche fuori dai territori di competenza di Firenze.

Ma come e di cosa venne incolpato Dante? Lo apprendiamo dal “Libro del Chiodo”[1], fonte mirabile per conoscere quei fatti. Vi si legge che il processo ebbe avvio per inchiesta d’ufficio, svolta dalla nostra corte a seguito della notizia, giunta da pubblica voce, che i predetti al tempo del loro priorato, o prima o dopo, al tempo indicato nell’inchiesta abbiano commesso baratterie, lucri illeciti, inique estorsioni in danaro e cose. E che essi, in solido o individualmente, abbiano ricevuto danaro o cose o promesse, tacite o per iscritto di danaro o altro, per qualche elezione da farsi di nuovi priori o gonfaloniere di giustizia, anche per conto di altri. E che essi, in solido o individualmente, abbiano ricevuto lucri illeciti per alcuni ufficiali, da eleggersi nella città o nel contado o nel distretto fiorentino o altrove, per alcuni stanziamenti, leggi o ordinamenti fatti o da non farsi, o per alcune cedole inviate a qualche rettore, ufficiale del comune o concesse ad alcuni. E che abbiano trattato di fare essi stessi tali cose, o le abbiano fatte fare. E che al riguardo abbiano pagato o fatto pagare in denaro o cose, o per impegno scritto, durante o deposto l’ufficio. E per il fatto che abbiano ricevuto dalla camera del comune o dal palazzo dei priori e gonfaloniere somme eccedenti rispetto a quelle che erano state loro stanziate. E che abbiano commesso frodi e baratterie in danaro o cose del comune di Firenze o si siano serviti di tali somme contro il sommo Pontefice e Carlo [di Valois] per resistere al suo arrivo, contro il pacifico stato della città di Firenze e della Parte Guelfa. E che essi in solido o individualmente abbiano ricevuto denaro o cose da persone, collegi, o collettività minacciandole di scissioni interne, in forza della loro autorità. E per il fatto che abbiano commesso o fatto commettere frodi, falsità dolo etc. e abbiano cospirato per la divisione interna della città di Pistoia, e abbiano cospirato affinché gli Anziani e il gonfaloniere della città di Pistoia si schierassero a favore di una parte soltanto, e che abbiano trattato che venisse fatta o ordinata l’espulsione dalla città di Pistoia dei seguaci della parte Nera, fedeli devoti della santa romana Chiesa, e che abbiano fatto separare la città di Pistoia dalla lega con Firenze e dall’obbedienza alla santa romana Chiesa e a Carlo, paciere nelle parti della Tuscia.

Un insieme incredibile di delitti, dunque, alcuni di carattere comune, come si dice, altri di tenore politico, asseritamente commessi nell’esercizio della funzione pubblica. In definitiva, la sentenza statuirà come di seguito: … Palmiero, Dante, Orlanduccio e Lippo, legittimamente citati in giudizio dai nunzi del comune e richiesti di presentarsi entro il termine fissato per difendersi dai risultati dell’inchiesta sopraesposti, non vennero, ma preferirono essere banditi dal comune nella somma di 5.000 lire di fiorini piccoli, per ciascuno, da Duccio di Francesco, banditore pubblico del comune, pena pecuniaria in cui incorsero assentandosi contumacialmente, come appare per esteso agli atti della nostra corte. Pertanto condanniamo gli stessi Palmerio etc., in solido e individualmente […], ritenuti rei confessi a causa della loro contumacia, ai sensi degli statuti, leggi, ordinamenti di giustizia vigenti nel comune di Firenze, al pagamento della predetta somma, e, qualora non procedessero al pagamento della somma e alla restituzione del maltolto entro 3 giorni dalla sentenza, all’esproprio, devastazione e distruzione di tutti i loro beni. E anche se pagheranno, debbano comunque stare fuori dai confini della provincia della Tuscia per 2 anni. I loro nomi debbono essere iscritti negli statuti del popolo e come falsari e barattieri e non possano rivestire incarichi pubblici nella città, nel contado, o nel distretto fiorentino, o altrove, sia che paghino la pena sia che non lo facciano. Emessa, pronunciata e promulgata dal detto podestà nel Consiglio generale del comune di Firenze, letta dal detto Bonora, notaio, su mandato del podestà il 27 gennaio 1302, stile della natività, indizione XV, al tempo di Bonifacio VIII papa. Testimoni: ser Agnolo socio del podestà, ser Pace di Tommaso da Gubbio, notaio del podestà, Duccio di Francesco e Albizzo, banditori.

I guai di Dante, tuttavia, non finiscono qui. Nello stesso 1302 il Poeta viene officiato quale Capitano di tutti gli esuli di Firenze, perché ne venga ottenuto, anche con la forza, il rientro. In questa veste verrà identificato come nemico del potere costituito e, per questo, ulteriormente bandito. Così, il 10.3.1302, meno di due mesi dopo la prima, Dante subisce una seconda condanna, questa volta ancora più grave, perché recante esecuzione capitale mediante rogo. Sempre il ‘Libro del Chiodo’ (pagg.14,15) ci informa che Il podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio condanna a morte contumacialmente Dante Alighieri insieme ad altri 14 coimputati. Queste sono le condanne o le sentenze di condanna fatte espresse e promulgate dal nobile e potente cavaliere messer Cante de’ Gabrielli da Gubbio, podestà della città di Firenze, circa i sottoscritti eccessi e delitti contro i sottoscritti uomini e persone all’esame del sapiente messer Paolo da Gubbio, giudice dello stesso podestà deputato all’ufficio sopra le baratterie e le estorsioni inique, e scritte da me Bonora da Pregio, notaio del detto podestà e ufficiale e deputato dal comune di Firenze allo stesso ufficio, nel corrente anno 1302, stile della natività, indizione XV, al tempo del santo padre Bonifacio VIII. Noi Cante podestà predetto diamo e proferiamo le sottoscritte sentenze: Andrea de’ Gherardini Lapo Saltarelli giudice Palmiero degli Altoviti Donato di Alberto del sesto di Porta Duomo Lapo dell’Ammonito del sesto di Oltramo Lapo Biondo del sesto di San Pier Maggiore Gherardino di Diodato del popolo di San Martino al Vescovo Corso di messer Alberto Ristori Innami de’ Ruffoli Lippo di Becca Dante Alighieri Orlanduccio di Orlando Ser Simone di Guidalotto del sesto di Oltrarno Ser Guccio medico del sesto di Porta Duomo Guido Bruno de’ Falconieri del sesto di Porta San Pietro contro i quali si è svolto il processo per inchiesta d’ufficio, svolta dalla nostra corte a seguito di notizia giunta da pubblica voce, e pertanto sono stati condannati come barattieri, per aver commesso estorsioni e guadagni illeciti. Citati in giudizio affinché si discolpassero e non presentatisi, sono stati banditi da Chiaro di Chiarissimo, pubblico banditore, come risulta dai nostri atti e, quindi, ritenuti rei confessi a causa della loro contumacia ai sensi degli statuti, leggi, ordinamenti di giustizia vigenti nel comune di Firenze se saranno catturati siano condannati a morte sul rogo. Emessa, pronunciata e promulgata dal detto podestà nel Consiglio generale del comune di Firenze letta da me Bonora, notaio, su mandato del podestà il 10 marzo dello stesso anno. Testimoni: ser Maso da Gubbio e ser Bernardo da Camerino, notai del podestà.

La notte di Dante, insomma, è sempre più cupa e profonda.

Ma non finisce qui. Nel 1313, ad undici anni dall’esilio del Poeta, muore Arrigo VII, Imperatore del Sacro Romano Impero. Era disceso in Italia nel 1310, sembra su invito di papa Clemente V, perché ponesse fine alle contese fra Guelfi e Ghibellini ed asserisse una condivisa influenza imperiale sui Comuni ribelli dell’Italia del Nord. Tuttavia, il tentativo non ha seguito, verosimilmente per l’ostilità/tradimento dello stesso Papa, che istiga contro l’imperatore l’opposizione guelfa, tra cui quella di Firenze. In quel frangente, Dante, che molte speranze aveva riposte nell’Imperatore, gli indirizza l’Epistola VII, con cui lo esorta a sollevare le sorti delle città e di Firenze in particolare. Non solo, ma verosimilmente in suo onore, compone tra il 1310 ed il 1313 il De Monarchia, nel quale, denotando una audace attitudine al disegno politico, riconosce ad un tempo l’autorità sovrana dell’imperatore e quella primaria del Papa. Il fallimento del tentativo di Arrigo VII e la fine delle speranze di Dante trovano posto sdegnoso nella Divina Commedia dove, per bocca di Cacciaguida, si racconta dell’inganno subito dall’Imperatore ad opera del Guasco (Papa Clemente V), chiamato, ancorchè ancora in vita, a sedere tra i dannati. Non solo, ma per sottolineare il sussiego di Dante per l’Imperatore, nel canto XXX del Paradiso Beatrice indicherà al Poeta un seggio vuoto nella candida rosa dei beati, destinato all’alto Arrigo.

La premessa è utile per intendere la terza condanna, quella definitiva, occorsa Il 15.10.1315. In quell’anno – in cui, con la battaglia di Montecatini, le forze ghibelline vinsero l’esercito fiorentino – fu deciso un provvedimento di amnistia, che avrebbe potuto favorire anche Dante, se lo stesso avesse compiuto pubblica abiuria e si fosse sottomesso all’autorità di Firenze. Ciò non avendo inteso fare, fu condannato a morte per decapitazione e al sequestro e alla distruzione dei beni. Ma c’è di peggio: per la prima volta, alla condanna di Dante, vengono associati, per aumentarne il tormento, i figli maschi. Una chiusa che varrà la fine di ogni relazione del Sommo Poeta con la sua patria ed un supplizio per la sorte dei figli che sarebbe durato altri sei anni, fino alla morte, giunta il 14 settembre 1321 in Ravenna.

Per chiudere, la vicenda che accompagnò gli ultimi venti anni della vita di Dante superò ampiamente la soglia del dramma giacchè, con il peso di ben due condanne a morte, l’ultima estesa ai figli, si tramutò in autentica tragedia. Egli fu perseguito, depredato, condannato, umiliato, in un crescendo che ha visto amputare prima la sua dignità di cittadino, poi quella di uomo, infine quella di padre. Nel mezzo, i dolori e l’umiliazione di chi viene chiamato a fuggire di città in città, di famiglia in famiglia, di corte in corte, provando ogni volta a disegnare, implacabilmente solo, un nuovo inizio, un nuovo fine. Ecco perché è importante conoscere quel che fu, sul piano giudiziario e storico. Solo cogliendo la gravità tragica di tali fatti è possibile intendere il seguito della sua esistenza, la profondità della sua solitudine e l’intensità del risentimento, divenuto invettiva poetica, verso chiunque abbia avuto parte nel processo di degenerazione di Firenze e dell’Italia intera.

Dante vittima del potere politico, dunque. Ma anche vittima della storia che, in anni retrivi e sordi, non seppe accogliere ed elaborare le eresie di un pensiero che, piuttosto che guardare al presente, traguardava, con accenti profetici, un futuro che, nel segno del libero pensiero, sarebbe occorso solo lunghi secoli dopo.


[1] Archivio di Stato Fiorentino. Contiene copia dei bandi comminati contro i Ghibellini e i Guelfi Bianchi, dichiarati colpevoli di ribellione al Comune e pertanto esclusi dalla vita politica cittadina, dal 1268 al 1378.

Condividi sui social

Iscrizione Newsletter

Resta aggiornato sulle ultime novità.