PREMESSA CONCETTUALE
La Pubblica Amministrazione, in uno Stato di Diritto, è lo strumento attraverso cui l’Istituzione si relaziona con la sua Comunità, sia realizzando infrastrutture, sia erogando servizi. E’, in qualche modo, il braccio operativo della Nazione Sovrana, che ad essa affida l’esternazione dei suoi moventi, del suo spirito, dei suoi fini. Ovviamente, in quanto espressione degli indirizzi di governo, la P.A. non è entità né neutra, né statica. Essa è, piuttosto, riflesso dinamico del potere che serve, del quale, in relazione al susseguirsi degli indirizzi politici, ripete obiettivi, contraddizioni, metodi. Corollario di tale impostazione è, evidentemente, l’esistenza di corpi politici democratici ed elettivamente legittimati, unici capaci di finalizzare, con il termine “pubblica”, l’azione dell’Amministrazione e perseguire interessi che non siano di parte, ma collettivi.
II – L’AMMINISTRAZIONE NELL’EVOLUZIONE STORICA: DA AMMINISTRAZIONE PER IL POTERE AD AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
La Pubblica Amministrazione, in quanto strumento del processo democratico e dell’interesse pubblico, è creazione piuttosto recente. Prima del compimento degli asset democratici, a cavallo tra il XVIII ed il XVIX secolo, l’Amministrazione era, fatalmente, riflesso di poteri autoritari, sorti da processi bellici, o da privilegi dinastici, ed assumeva a scopo ultimo la loro conservazione e perpetuazione. In un gioco di specchi, così come il potere era assoluto (legibus solutus, sciolto da ogni vincolo di legge), parimenti, per filiazione, la burocrazia lo era, chiamata a rispondere, esclusivamente, al suo dante causa, da chiunque incarnato.
L’Amministrazione sovrana, per queste ragioni, non aveva alcun tratto pubblicistico e, pertanto, non poteva fregiarsi dell’aggettivo “pubblica”, giacchè di tale qualità non solo sconosceva, ma addirittura negava, il senso ed i contenuti. In altri termini, più che classista, essa era sovranista, chiamata cioè a servire un sovrano assoluto, suo controllore incontrollato, senza alcun dovere di rispondere al popolo, organismo privo di identità giuridica e legittimazione sociale, al quale semmai andava dedotta ogni forma di pensiero libero e libera determinazione.
Non esistendo una “pubblica amministrazione”, nemmeno poteva esistere un diritto amministrativo, inteso come scienza della funzione pubblica, degli atti, degli scopi e delle tutele ad essa connessi. Sarebbe venuto dopo, all’asserirsi delle prime esperienze democratiche e della centralità del popolo sovrano.
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Il paradigma cambia con l’avvento, nel XVIII secolo, delle rivoluzioni illuministe e del ribaltamento delle scorie autoritarie che secoli di sovranismo dinastico e belligerante avevano generato. E’ con la scoperta delle libertà, del pluralismo, del valore etico e politico del dissenso che si pone il tema di un cambio di passo nel rapporto Pubblico/Privato, attraverso la creazione di nuovi modelli giuridici, capaci di dare corpo ai principi di oggettività, predeterminazione, responsabilità. Il popolo, storicamente periferia concettuale e filosofica, diviene centro e scopo dell’agire politico, mutando il potere in “funzione”, cioè in strumento di rivelazione delle libertà. Il Potere finisce di essere il carnefice della democrazia e l’Amministrazione può finalmente aggiungere l’aggettivo “pubblica” alla sua denominazione.
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Avamposto di tale nuovo modo di intendere la relazione Stato/Comunità fu certamente la Francia rivoluzionaria prima e Napoleonica poi, cui, tra contraddizioni e cadute, si deve la più alta forma di storicizzazione del pensiero illuminista.
Napoleone, in particolare, fu grande stratega, grande condottiero e grande politico, ma, soprattutto, fu grande giurista e grande riformatore. Celebre la sua frase, contenuta nelle Memorie da Sant’Elena: “Forse, non verrò ricordato per le mie battaglie, certamente verrò ricordato per i miei codici”. Fu facile profeta. I suoi codici – civile, del commercio, penale e delle procedure – cambiarono radicalmente il volto dell’Europa, fornendo una chiave di lettura assai più complessa ed incline verso diritti prima negletti, come la proprietà, la parità contrattuale, la partecipazione democratica, la giurisdizione universale, i diritti delle donne e dei figli naturali, il matrimonio, la famiglia.
Fu esattamente in quel tempo che la burocrazia perse, definitivamente, lo stigma del potere legibus solutus, per consegnarsi ad una dimensione partecipata e costituzionalmente orientata. Nasce da questo humus il diritto amministrativo, il cui movente primo sarà quello di porsi a presidio della comunità delle donne e degli uomini nel rapporto con il potere e, correlativamente, di garantire la sottomissione di questo alle ragioni superiori della legge e del popolo.
III – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E COSTITUZIONE: UN LEGAME INSCINDIBILE
Riguardo all’Italia, i nuovi metodi ed i rinnovati scopi della pubblica amministrazione hanno trovato corpo nella loro sede naturale, la Costituzione, che, dopo avere fissato il principio di uguaglianza e l’impegno della Repubblica a rimuovere ogni sorta di ostacolo alla sua realizzazione (art. 3) ed aver prescritto che l’esercizio della funzione pubblica debba avvenire con dignità ed onore (art. 52), ha fissato il canone fondativo dell’azione amministrativa, stabilendo (art. 97) che I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (comma 2). Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari (comma 3). Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge (comma 4).
La legge, nel nuovo costrutto istituzionale, è dunque l’antecedente giuridico necessario e l’Amministrazione Pubblica ne è legittimata e sottoposta. Il tema trova corpo in altri momenti della Costituzione.
L’art. 95 comma 3 ha stabilito che La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri, con la precisazione, a puntualizzarne la rilevanza, che l’accesso alle pubbliche funzioni è riservato a procedure selettive ad evidenza pubblica (art. 51): Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Di più: a stigmatizzare la rilevanza libertaria e pubblicistica dell’azione amministrativa, l’art. 98 ha prescritto che I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
Tuttavia, la caratterizzazione di un istituto non basta, da sola, a descriverne la complessità democratica. Occorrono due ulteriori indicatori, che la Costituzione procura di evidenziare: la responsabilità ed il controllo.
Sul primo versante, definitivamente superando l’antecedente principio di irresponsabilità dell’Amministrazione Sovrana, l’art. 28 ha stabilito che I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Fa eco il successivo l’art. 95, secondo comma, secondo cui I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri.
Quanto al secondo tema, l’art. 100 ha istituto un apposito organo di rilevanza costituzionale, a cui demandare, in condizioni di terzietà, il controllo, preventivo e successivo delle attività di gestione e governo: la Corte di Conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. Ovviamente, perché il controllo assuma veste democratica, occorre che esso venga esercitato in condizioni di effettiva terzietà ed imparzialità. In questo senso, lo stesso art. 100 ha previsto che la legge assicura l’indipendenza della Corte dei Conti e dei suoi componenti di fronte al Governo. Tema rinforzato con il successivo art. 108, a mente del quale la legge assicura l’indipendenza delle giurisdizioni speciali, tra cui è annoverata la Corte dei Conti.
In definitiva, la Costituzione Italiana ha cristallizzato una profonda revisione del rapporto tra Pubblica Amministrazione, Potere (rectius, funzione) e Cittadino, fissando non solo i fini e gli strumenti della prima, ma anche i profili di efficienza, controllo e responsabilità che ne rendono possibile la realizzazione. Non più il potere è il fine, ma l’interesse pubblico, contenitore nel quale trovano posto, in maniera innominata, tutti gli interessi giuridicamente qualificati.
IV – COSTITUZIONE ED EFFETTIVITA’: UN PASSO NON BREVE
Ogni Costituzione, in quanto scrigno supremo di valori e principi, non è integralmente autoapplicativa. Essa richiede, spesso, un lungo e faticoso processo di attuazione, in gran parte demandato alla legiferazione ordinaria. D’altronde, la stessa Costituzione aveva contezza del fatale iato tra il momento assertivo ed il momento attuativo, ad esempio allorchè chiama la Repubblica, dopo la proclamazione solenne del principio di uguaglianza (art. 3 comma 1), ad operare per rimuovere gli ostacoli, di ogni sorta, che si sarebbero frapposti alla sua realizzazione (art. 3 comma 2). Nella medesima direzione, del resto, si muove l’art. 95, nella parte in cui demanda a successive leggi la formazione degli atti di organizzazione delle attività ministeriali.
Ebbene, la profezia Costituzionale si è puntualmente avverata, anche riguardo alla pubblica amministrazione italiana.
Quanto agli Enti Locali, basterà annotare che la norma di riferimento sarebbe rimasta il Regio Decreto 3 marzo 1934 n. 383, sino all’adozione del dlgs 267/2000 (testo unico degli enti locali), cioè per oltre cinquanta anni. Riguardo invece ad una legge generale ed organica sulla pubblica amministrazione, si è dovuto attendere il 1990, cioè oltre quaranta anni, con l’approvazione della legge n. 241.
In definitiva, fino alla soglia del nuovo secolo, la pubblica amministrazione ha continuato ad operare secondo schemi e metodi non distanti da quelli che la Costituzione aveva inteso cancellare. Nessun vincolo procedurale, nessuna regola d’azione, nessun riferimento per la definizione di percorsi, tempi, obiettivi. E, se non si fossero applicate dottrina e giurisprudenza – ad esempio per definire il concetto di illegittimità dell’atto amministrativo e profilarlo nelle poi canonizzate figure della violazione di legge, dell’eccesso di potere e dell’incompetenza – questo vuoto sarebbe rimasto ancora più profondo.
Né diversamente è andata con riferimento al versante giurisdizionale.
Ancorchè la Costituzione avesse, con l’art. 103, posto il principio per cui Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi, “Gli altri organi di giustizia amministrativa’ ebbero luce solo all’inizio degli anni settanta (L. 1034/1971), con l’istituzione dei Tribunali amministrativi Regionali. Così che, in spregio all’art. 103, per oltre venti anni il contrasto tra cittadino e P.A. non venne affidato ad un organo giurisdizionale terzo ed imparziale, ma, in primo grado, alle c.d. Giunte Provinciali Amministrative, organismi di matrice prefettizia, dunque facenti parte dello stesso apparato amministrativo che erano chiamate a giudicare. Il controllato che controlla il suo controllore, potrebbe dirsi.
Né la questione era di poco conto. La tutela giurisdizionale è elemento fondativo di uno Stato di Diritto, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione. Ne fa testimonianza l’art. 113 della Costituzione, a mente del quale Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, con la specificazione, contenuta nell’art. 125, che Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa. In definitiva, l’Italia ha operato, per oltre un ventennio, in condizioni di irregolarità costituzionale, che non poco ha inciso sulla sua credibilità, nazionale ed internazionale.
V – LA L. N. 241/1990: UN NUOVO MODELLO DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Come detto, una legge organica sul procedimento amministrativo, sulle attività e sui doveri della pubblica amministrazione avrà luce solo nel 1990, con la legge n. 241, recante, significativamente, “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”.
La legge compone un pregevole insieme valoriale ed operativo, nel quale trovano posto i principi e criteri fondamentali dell’azione amministrativa, dei suoi valori e dei suoi doveri. Ne viene fuori un quadro complesso, nel quale il legislatore sembra, da un lato proteso a tradurre, al più alto livello concettuale, i valori profusi dalla Carta Costituzionale, dall’altro a contrastare le gravi e risalenti inefficienze del sistema, attraverso rimedi finalizzati a dare certezza ai diritti dei cittadini e restituire efficienza ed imparzialità all’azione amministrativa.
L’art. 1 fornisce, con chiarezza, il quadro degli obiettivi.
1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario. 1-bis. La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. 1-ter. I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge. 2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. 2-bis. I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede.
Il perimetro concettuale è, sin dal suo esordio, preciso. La P.A., soggetta al governo della legge, è chiamata a fissare obiettivi di interesse pubblico e, in funzione di ciò, ad adeguare i suoi metodi, secondo il criterio dell’efficienza, dell’efficacia, dell’imparzialità e della economicità. Non solo, ma il conseguimento di tali scopi non è affidato alla unilaterale percezione dell’Istituzione, ma impone una corretta relazione con i soggetti destinatari e le altre amministrazioni, stigmatizzata dal principio di cooperazione in buona fede e di non aggravamento – e, dunque, di semplificazione – del procedimento.
Tuttavia, pronosticando la possibile necrosi dell’azione amministrativa, gli articoli successivi procurano di rafforzare i principi di cui all’art. 1, fissando i dettagli del buon agire amministrativo, tra cui si stagliano: a) l’obbligo di aprire i procedimenti amministrativi e di completarli in tempi certi, quando spetti; b) l’obbligo della P.A. di rispondere del suo operato. In questa direzione, l’art. 2 ha imposto che tutti i procedimenti vadano, d’ordine (fatte salve materie particolari, da tipizzarsi con apposita regolamentazione), conclusi nel termine di giorni 30 e che solo per motivato motivo possa darsi luogo ad un prolungamento, comunque fino al limite dei novanta giorni.
In tutto questo, la P.A. finisce di essere il luogo dell’autorità avulsa da ogni controllo, ma diviene, sul piano concettuale e, si direbbe, filosofico, una casa comune, perscrutabile e contendibile. Così, l’art. 3 ha preteso che ogni atto amministrativo sia munito di idonea motivazione, con l’esposizione delle ragioni fattuali e giuridiche poste a suo fondamento. Tale dato ritornerà in altri ambiti, ad esempio nel corpo del procedimento informativo e partecipativo che deve precedere l’adozione di ogni atto, in cui la P.A. sarà chiamata a motivare anche sulla base dei contributi di parte (art. 10), ovvero a spiegare il motivo per cui, nelle procedure ad istanza di parte, le osservazioni della stessa non possano trovare accoglimento (art. 10 bis).
Ma v’è di più. A garantire la prontezza ed efficienza dell’azione amministrativa, la l. 241/1990 ha disposto che l’intero iter fosse affidato ad un responsabile del procedimento, chiamato per un verso a consentire l’approdo del procedimento al suo esito finale (artt.5 e 6), per altro verso a divenire centro di una specifica ragione di responsabilità, correlata alla tempestività della risposta amministrativa: 1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. 1-bis. Fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.
In definitiva, l’azione amministrativa, piuttosto che scevra da vincoli e regole, viene ripensata dalla l.214/1990, in linea con precisi indicatori costituzionali, in termini di efficienza, tempestività, controllo, responsabilità. In tale contesto, il tema del rifiuto, dell’inerzia o del silenzio della P.A. costituisce una anomalia, un profondo vulnus al buon fine del sistema.
VII – IL TABU’ DEL SILENZIO
Il quadro concettuale sopra delineato fa intendere come il silenzio, nel nostro sistema giuridico, costituisca un fattore estraneo alle attitudini istituzionali della P.A. La Repubblica, attraverso i suoi organi ed apparati, è chiamata a corrispondere, con tempestività ed efficienza, ai suoi scopi pubblicistici ed a veicolare tale funzione secondo principio di tempestività, giustizia ed equità. Il silenzio, in altri termini, è l’ospite sgradito del sistema pubblico, il suo nervo scoperto, l’antigene contro il quale così la Costituzione, come la l. 241/1990, si sono scagliati. Basti pensare all’art. 2 bis l. 241/1990 che, considerando il ritardo e/o omissione come riflesso di un’attività illecita, prevede: a) una sanzione risarcitoria, in ipotesi di inosservanza dolosa o colposa del termine; b) indennitaria, in ipotesi di inosservanza non qualificata del termine. Basti, altresì, richiamare l’art. 28 della Costituzione, a mente del quale I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
Dunque, il silenzio inefficiente è, sul piano valoriale e giuridico, incompatibile con il senso, la funzione e lo scopo della pubblica amministrazione. Al netto dei casi in cui la P.A. non ha alcun obbligo di aprire e definire un procedimento (si pensi ad istanze di parte non correlate ad alcun bando e/o ad alcuna legittima o prevista finalità), per il resto alla P.A. non è dato ricorrere al ‘non liquet’, ferme restando le sue prerogative discrezionali.
Né, in questo quadro, è soddisfacente trattare i silenzi della P.A. in esclusiva chiave penale. Come è noto, il rifiuto/omissione assumono rilevanza penale, ai sensi dell’art. 323 c.p., allorchè si fornisca la prova della intenzionalità dolosa, correlata alla dovutezza di un determinato comportamento. Tale impianto lascia privi di copertura sanzionatoria tutti i casi – che sono statisticamente la maggioranza – in cui il rifiuto o ritardo non sia frutto di intenzione ma di inefficienza o indolenza. Da qui la necessità di uno scrutinio extrapenale, che assuma il silenzio come disvalore oggettivo, che lo collochi tra le ipotesi di illecito, a prescindere dallo stato soggettivo del funzionario, ed induca la P.A. ad intensificare la sua capacità operativa, secondo i crismi della legalità.
VIII – IL PROCESSO DI SEMPLIFICAZIONE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA.
Per ovviare ai rischi di silenzio e/o ritardo della P.A., la l. 241/1990, a fronte di istanze su cui v’è obbligo di pronunciamento (ad esempio, autorizzazioni per l’apertura di esercizi commerciali), ha previsto un meccanismo di semplificazione, che consente di saltare le verifiche ex ante della P.A. ed il relativo processo autorizzatorio. L’art. 19 della l. 241/1990 ha invero previsto che 1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato- La norma pone un percorso semplificato, attraverso un’attività di impulso che, per legge, è definitva come autosufficiente. Ovviamente, tale opportunità non è universale, ma è data con alcuni limiti casistici. Lo stesso art. 19 chiarisce che essa è data con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria.
Ovviamente, non basterà, perché si raggiunga l’effetto, la sola presentazione della SCIA, ma occorrerà che la segnalazione sia corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. A fronte di quanto sopra, la stessa norma prevede un ulteriore momento di semplificazione, nella parte in cui prevede che, Nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
L’esito di tale modalità sarà, come precisa il comma 2, che L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata, anche nei casi di cui all’articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente. In altri termini, la norma ribalta il paradigma precedente, in cui tutto passava da azioni attive della Amministrazione Pubblica, titolare di un potere esorbitante, anche a proposito di interessi fondamentali, quali quelli economici, propri non solo delle parti ma dell’intera Nazione. Senza dire del dispendio di tempi, risorse, unità di personale che tale modalità implicava.
Ovviamente, l’autosufficienza del processo di semplificazione non è stato strutturato in termini di integrale svuotamento delle prerogative pubbliche. Così che la norma ha inteso conservare, in capo alla P.A., il potere di controllo e di interdizione, in modi e tempi che, tuttavia, risultino compatibili con il principio di efficienza e di utilità sociale. In questa ottica, l’art. 19, comma 3, ha previsto un meccanismo, temporalmente calibrato, di sanatoria, divieto o sospensione, stabilendo che L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata.
Dunque, anche l’azione di verifica postuma è ammissibile, ma è stigmatizzata da termini perentori, utili ad evitare il compimento di pregiudizi socialmente ed individualmente ingiusti e\o non sostenibili.
Rimane da dire che, ove la SCIA sia corredata da atti e\o attestazioni non veritiere o false, al netto delle conseguenze penali previste al comma 6, il comma 4 dell’art. 19 prevede comunque un titolo di intervento: …l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies.
E’ utile domandarsi, infine, quale sia la connotazione giuridica di una SCIA.
Essa non costituisce, di per sé, una provvedimento tacito, frutto cioè di un silenzio della P.A. e, per tale via, autonomamente impugnabile. Essa, è piuttosto un atto privato ad effetto sostitutivo, immediatamente efficace e che non suppone un’inerzia della P.A. Lo chiarisce il comma 6-ter dell’art. 19, a mente del quale La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Dunque, non essendo un atto amministrativo, la SCIA non è autonomamente impugnabile. Gli aventi interesse potranno in compenso sollecitare delle verifiche, mancando le quali avranno modo di adire il giudice amministrativo, allo scopo di far rilevare l’illegittimo silenzio della P.A. rispetto alle loro rimostranze.
IX – LA FORMAZIONE DI ATTI AMMINISTRATIVI “PER SILENTIUM”
Il silenzio della P.A. è un fenomeno complesso, variamente affrontato e disciplinato dall’ordinamento giuridico. Esso non necessariamente si risolve in un effetto illecito, foriero di conseguenze legate a profili di inadempimento e responsabilità. In alcuni casi, viene considerato quale momento fisiologico dell’agire amministrativo, come tale idoneo ad esternare la volontà dell’Ente ed a generare il compimento dell’iter procedimentale. In questo senso, l’ordinamento giuridico ha avuto modo di tipizzare vari istituti legati al silenzio: il silenzio-assenso, il silenzio-rifiuto, il silenzio-rigetto, il silenzio-inadempimento. I primi tre si caratterizzano per essere, per silentium, forieri di provvedimenti attivi e, dunque, non passibili di censura omissiva. Il quarto, al contrario, sussume un profilo di responsabilità della P.A., esposta, pertanto, a conseguenze sanzionatorie.
Il Silenzio-Assenso.
L’istituto del silenzio-assenso, quale segno di un cambio radicale di paradigma, è disciplinato, in via generale, dall’art. 20 l. 241/1990, il quale recita che 1. Fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2. Tali termini decorrono dalla data di ricevimento della domanda del privato.
In definitiva, l’inerzia della P.A. non dovrebbe più costituire uno spettro, grazie ad un sistema che annette alla stessa una tipica funzione assentiva.
Correlato a tale impostazione è, anche, l’art. 16 della l. 241/1990 che, nel delineare le relazioni tra pubbliche amministrazioni, prescrive che, se istituzionalmente tenuto, un Organo della P.A. debba rendere il parere alla stessa richiesto nel termine di venti giorni e che, in mancanza, l’amministrazione procedente possa legittimamente procedere. La norma non chiarisce se il silenzio valga quale rilascio del parere. Tuttavia, lo lascia intendere, nel momento in cui autorizza l’ammimistrazione istante a procedere.
Ancora più penetrante l’art. 17 bis che, sempre in ottica assentiva, pone il tema della leale cooperazione tra amministrazioni pubbliche. In esso è prescritto, in primis, un termine certo di formulazione di pareri, assensi, concerti o nulla osta: 1. Nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento …Il termine è interrotto qualora l’amministrazione o il gestore che deve rendere il proprio assenso, concerto o nulla osta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica, motivate e formulate in modo puntuale nel termine stesso. In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento… Quel che rileva è il successivo secondo comma, che, a differenza dell’art. 16, chiarisce expressis verbis l’effetto assertivo del silenzio: 2. Decorsi i termini di cui al comma 1 senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito. Esclusi i casi di cui al comma 3, qualora la proposta non sia trasmessa nei termini di cui al comma 1, secondo periodo, l’amministrazione competente può comunque procedere.
Il terzo comma, infine, opera un vero balzo concettuale, includendo nel novero dei silenzi significativi di assenso anche materie sensibili, come quelle ambientali, paesaggistico-territoriali, culturali e concernenti la salute dei cittadini: 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all’articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Il comma 4 chiude con una chiosa significativa. Essa ammette, in via generale, l’effetto-assenso secondo il diritto italiano e lo esclude solo in presenza di preclusioni derivate da disposizioni di diritto dell’Unione Europea. Per una volta, il diritto nazionale sembra aver alzato l’asticella oltre quella Comunitaria: 4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedano l’adozione di provvedimenti espressi.
Infine, merita, per la rilevanza casistica, riferire di altro caso di silenzio-assenso, disciplinato in materia edilizia. Esso riguarda la mteria dei permessi di costruire, in cui, in presenza di una domanda certificata e munita di tutte le asseverazioni occorrenti, si forma il provvedimento tacito di assenso decorsi i termini di cui all’art. 22 t.u. 327/2001.
Il Silenzio-rifiuto.
Differentemente dall’ipotesi del silenzio-assenso, il silenzio-rifiuto proietta un esito provvedimentale di segno negativo. E’ il caso, ancora in materia di edilizia, dell’iter di accertamento di conformità previsto dall’art. 36 T.U. 327/2001, che, se non esitato nel termine di 60 giorni, va inteso come provvedimento tacito negativo, impugnabile innanzi al Tar. In questo caso, l’effetto negativo è correlato alla materia sottostante che, incidendo sull’assetto urbanistico e sulla stessa qualità dell’azione edilizia, prefigura una ratio ostativa, correlata al profondo disvalore pubblico che simili iniziative generano.
Il silenzio-rigetto.
Anche in questo caso, il silenzio non è neutro, nè sussume un effetto sanzionatorio, ma è generativo di un effetto tipico, voluto dalla norma. L’istituto si applica, massimamente, con riferimento ai ricorsi amministrativi di cui al DPR 119/1971 che, se non esitati nel termine di giorni 90, vanno intesi ex lege come respinti. L’effetto negativo non è, di per sé, autonomamente impugnabile, sostanziandosi in una decisione negativa tacita, ma rende possibile l’impugnazione giurisdizionale dell’atto oggetto del ricorso amministrativo, in un termine di dicadenza che decorre dallo spirare dei 90 giorni.
Il silenzio-inadempimento.
L’Istituto del silenzio-inadempimento non è foriero, differentemente dagli altri casi esaminati, di provvedimento tacito (assenso, rifiuto, rigetto), ma sussume un momento di illiceità, cui si connette un profilo di responsabilità della P.A. che, ancorchè obbligata, non adotta un provvedimento cui è tenuta.
E’ evidente che obiettivo dell’istituto non è incardinare un effetto provvedimentale, ma semplicemente far valere, con intento neutro, un profilo di responsabilità della P.A., omittente rispetto ad un obbligo di facere. Da qui la possibilità di agire contro il silenzio, nelle forme e nei modi che, a seguire, verranno esaminati.
X – DIFENDERSI DAL SILENZIO-INADEMPIMENTO DELLA P.A.
Il silenzio-inadempimento, in quanto elemento di inefficienza della P.A. e sostanzialmente elusivo rispetto ad un obbligo di facere, definisce una dato omissivo illecito. Una modalità che può essere ricondotta alla fattispecie della responsabilità ‘aquiliana’, ovvero all’archetipo di cui all’art. 2043 c.c., a mente del quale qualunque fatto e\o atto doloso o colposo, omissivo o commissivo, cagioni un danno ingiusto impone una risposta risarcitoria a carico dell’agente.
Il tema del silenzio illecito della P.A. e dei rimedi a contrasto dello stesso è affrontato così in ambito sostanziale, all’interno della l. 241/1990, come in ambito processuale, all’interno del Codice del Processo Amministrativo (CPA-Dlgs 104/2010).
L’art. 31 del CPA stabilisce che 1.Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere.
Trattasi di un’azione contro una forma di silenzio neutra, ovvero significativa né di rifiuto, né di assenso, né di rigetto, e tuttavia intrisa di illiceità, in quanto colpevolmente elusiva dell’obbligo di corrispondere ad un’istanza legittimamente avanzata e/o di completare un iter amministrativo avviato.
La norma, nel rispetto del principio di separazione dei poteri, è congegnata per colpire l’evento inerziale della P.A., non per determinare, per via giurisdizionale, il contenuto del provvedimento omesso. E difatti la norma chiarisce che la parte possa “chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”, non già l’adozione del provvedimento preteso. Né avrebbe potuto essere altrimenti, perché si sarebbe violato uno dei principi cardini del sistema, che impone alla giurisdizione di non sostituirsi alla P.A. nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, fatti salvi i casi di giurisdizione c.d. esclusiva. In definitiva, il Giudice Amministrativo può valutare la tenutezza della P.A. di provvedere, lo spirare del termine, il correlativo profilo di responsabilità, ma non può adottare, sostitutivamente, il provvedimento atteso. Vedremo che questo potere la giurisdizione potrà sviluppare in altro ambito, quello dell’ottemperanza del giudicato.
Tuttavia, questo limite trova attenuazione con riferimento ai c.d. atti paritetici, atti a contenuto vincolato in cui la P.A. esercita una funzione meramente conformatoria ed il cui esito, una volta attestata la legittimità della domanda, non può essere differente rispetto a quello preteso. In questo caso, lo scrutinio del giudice può andare oltre il mero obbligo di provvedere e spingersi, senza adottare sostitutivamente il provvedimento, sino a dichiarare la fondatezza, nel merito, della pretesa. Dispone, sul punto, il comma 3 dell’art. 31: . 3. Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.
L’art. 31, sul piano processale, è completato dall’art. 117 c.p.a., titolato “ricorsi avverso il silenzio”, il cui primo comma precisa che Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all’amministrazione e ad almeno un controinteressato nel termine di cui all’articolo 31, comma 2, ovvero un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Il secondo comma dello stesso art. 117 conferma, specificandolo, l’impianto disegnato dall’art. 31 e precisa che Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e in caso di totale o parziale accoglimento il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni. In ipotesi di perduranza dell’inerzia, il terzo comma prevede uno specifico rimedio, da operarsi sia ex ante, sia su istanza di parte: Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata.
Infine, allo scopo di potenziare l’efficacia dell’intervento giudiziario, il quarto comma attribuisce uno specifico potere al Tar, stabilendo che Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario. Si tratta di una specificazione che fa il paio con quella contenuta in seno all’art. 31, secondo cui, in presenza di atti vincolati, il giudice non si limita a dichiarare l’obbligo di provvedere ma anche di fissarne i contenuti. In questo caso, la norma attribuisce al giudice il potere di adottare tutte le misure necessarie al conseguimento dell’effetto, compresi gli atti di spesa e le prescrizioni verso i soggetti chiamati a compiere specifiche attività.
In tutto questo, il sistema non esclude l’eventualità di un pronunciamento tardivo della P.A. In questo caso, ove non satisfattivo, l’atto potrà essere autonomamente impugnato, anche nella forma dei motivi aggiunti rispetto al ricorso originario sul silenzio. In questi casi si porranno evidenti questioni di coesistenza, tra rito speciale sul silenzio e rito ordinario sull’atto. L’art. 117 comma 5 risolve il tema, statuendo l’assorbimento del primo nel secondo: 5. Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito.
Un’ultima questione concerne il possibile cumulo di un giudizio sul silenzio, con uno sul risarcimento del danno, quest’ultimo quale conseguenza del primo. Trattandosi di due beni della vita correlati ma differenti, essi seguiranno percorsi processuali separati: il primo, di ordine speciale, seguirà il rito ex art. 117 c.p.a, il secondo, ordinario, seguirà il rito ex art. 30 comma 4 c.p.a. Dispone sul punto l’art. 117 comma 6 c.p.a.: Se l’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 30, comma 4, è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria.
Un’ultima notazione merita la tempistica dell’azione contro il silenzio-inadempimento. Essa è configurata dall’art. 31 c.p.a., il cui comma 2 precisa che L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. Quest’ultima proposizione è, sul piano pratico, oscura. Ciò poiché l’inciso “ove ne ricorrano i presupposti” va inteso con riferimento alla concreta variazione delle circostanze procedurali e sostanziali poste a fondamento dell’interesse preteso. Ne segue che, nella invarianza dei dati, non è dato riproporre l’istanza e, per essa, la generazione di un nuovo termine di proposizione del giudizio ex art. 117 c.p.a. che, evidentemente, si atteggerebbe quale duplicazione di quello precedente, in violazione del principio del “ne bis in idem”. Ad esempio, se un ricorso contro un silenzio concernente un mancato finanziamento pubblico venga dichiarato dal Tar inammissibile, per inutile decorso del termine annuale, sarà impossibile, nella invarianza dei dati, avviare un nuovo iter, con una nuova istanza ed un nuovo ricorso ex art. 117 c.p.a. Potranno semmai, se ne ricorreranno le condizioni (ove si accerti, tornando all’esempio, che l’Ente avesse effettivamente ricevuto le risorse destinate al beneficiario), essere esperiti altri rimedi in via ordinaria, quali l’azione per il risarcimento del danno, ex art. 30 c.p.a., in relazione al mancato esercizio di un’azione amministrativa obbligatoria.
XI – IL SILENZIO IN MATERIA DI DISPOSITIVI GIURISDIZIONALI E DI ACCESSO
L’anomalia del silenzio pubblico può rivelarsi anche in altri contesti, a rilevanza così sostanziale come processuale.
A) L’art. 112 del C.P.A. è dedicato ad una particolare forma di silenzio della P.A., in cui l’inerzia impatta, addirittura, su una decisione giurisdizionale, passata in giudicato. Al netto delle implicazioni a rilevanza penale, Il Codice del Processo Amministrativo, attraverso apposito rito speciale e semplificato (ottemperanza), si preoccupa di fornire uno strumento utile ad ovviare a tale genere di inerzia, prescrivendo: a) in primis, un preliminare richiamo alla P.A., perché adotti l’atto dovuto entro termine dato; b) quindi, la nomina di un commissario ad acta, sostituto istituzionale dell’Amministrazione inadempiente, officiato di tutti i poteri, anche di spesa, per poter eseguire la sentenza da ottemperare.
Trattasi di un’azione che si atteggia in guisa di un’azione esecutiva, dove però la parte inadempiente è un soggetto pubblico, giurisdizionalmente chiamato, in via definitiva, ad un obbligo di facere o non facere. La cosa che colpisce è la gravità del rifiuto da parte della P.A., stante l’autosufficienza del giudicato e l’obbligo di provvedere alla sua attuazione. Ne fa testimonianza il primo comma dell’art. 1, in cui è chiarito che “i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altri parti”. Trattasi di norma processuale ed imperativa, rispetto alla quale non residuano margini di discrezionalità, la cui elusione è implicativa di conseguenze anche di ordine penale. Ciò che, tuttavia, non sconsiglia molte amministrazioni pubbliche, forti di una giurisprudenza che manifesta scarsa severità, a non eseguire.
B) Mette conto, infine, richiamare un ultimo istituto presente nel codice del processo amministrativo, concernente i diritti di accesso, per come disciplinati dagli artt. 22 e ss. L. 241/1990. Con l’art. 22 la l. 241/1990 ha dato ulteriore impulso e credibilità al principio di imparzialità e trasparenza fissato dall’art. 1 ed ha stabilito che 2. L’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza.
Conseguenza di quanto sopra è la libera accessibilità agli atti della P.A., nei limiti ovviamente dei vincoli correlati alla sicurezza pubblica ed alla sensibilità dei dati e, ovviamente, di un interesse qualificato alla cognizione. L’Amministrazione pubblica avrà trenta giorni per scrutinare la domanda e corrispondervi. In mancanza, ai sensi dell’art. 25 l. 241/1990, è ammesso ricorso Tar competente per territorio nel successivo termine di trenta giorni. Il tema è, in rito, disciplinato dall’art. 116 c.p.a., a mente del quale 1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato….4. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità.
L’impianto della norma è differente rispetto a quello sul silenzio-inadempimento. Qui il codice attribuisce al Giudice non solo il potere di imporre un riscontro, ma anche di condannare ad un “facere”, attraverso l’ordine positivo di esibire i documenti richiesti. Una giurisdizione piena, dunque, che fa definire il titolo all’accesso non già quale mero interesse legittimo ma, in presenza dei presupposti, quale autentico diritto soggettivo della parte.
CONCLUSIONI
Il silenzio è certamente una anomalia nel corpo del sistema pubblico, in quanto antitesi dei principi che fondano le Nazioni libere e democratiche. Esso, in realtà, dovrebbe costituire, in simili contesti, una sorta di tabù, un disvalore di tale entità da non dover nemmeno essere contemplato.
Purtroppo, la realtà tratteggia, con percentuali spesso sorprendenti, evidenze di segno contrario, che finiscono per compromettere il processo di crescita di una Nazione e generare il paradosso per il quale la P.A., chiamata a garantire equità ed efficienza, ne diviene il primo e più insidioso ostacolo.
Ma v’è di più. Avendo l’agire pubblico un immanente effetto ‘pedagogico’ su costumi e metodi della società civile, ben si intende quanto il ripetersi di inerzie ed omissioni pubbliche possa sviluppare effetti emulativi presso la comunità amministrata, riducendone il di tasso di civiltà e responsabilità.
La verità è che il silenzio della P.A. dovrebbe essere percepito come un tabù, culturale prima che istituzionale, e vissuto come un tarlo capace di erodere le forze migliori della Nazione. A tale scopo, fondamentale dovrebbe essere il ruolo dei giudici, sovente inclini all’indulgenza, ad esempio in sede di condanna alle spese di giudizio, ovvero allorchè manchino di trasmettere gli atti acclarati come illeciti alle Procure competenti, ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità contabili, amministrative, penali.
Un fatto è certo: il silenzio della P.A. costituisce la contraddizione più viva e bruciante di una Nazione che si pretenda democratica. E’ un ossimoro sociale e, nella sua pervasività, il segno di un oltraggio alle donne ed agli uomini che, in tempi ancora recenti, hanno pagato con la vita o l’emarginazione il disegno di scrivere, nelle pagine della storia, parole come libertà, democrazia, civiltà.
L’auspicio è che le Istituzioni colgano, con pienezza, la centralità della funzione amministrativa nel contesto del Sistema-Paese e sappiano porre un freno all’invalsa attitudine del ‘lasciar correre’ o, peggio, del ‘lasciar perdere’, segno di una sciatteria istituzionale della quale l’attuale crisi di efficienza ed identità risulta essere inevitabile conseguenza.